domenica 30 dicembre 2007

Racconto dell'ultimo dell'anno.


Prologo
Che cos’è il tempo? La più ineffabile tra le grandezze fisiche, che per definizione sono appunto grandezze, cioè entità ben definite e misurabili. I fisici sono stati riluttanti, nel loro mondo della precisione, dell’esattezza, all’indefinito, eppure qualche principio d’indeterminazione hanno pur dovuto ammetterlo, proprio quando ci si avvicinava alle particelle più piccole. Sul tempo qualche questione rimane aperta.
I filosofi da parte loro, da S. Agostino a Kant, ricercando in noi stessi, non hanno potuto non rilevare la dimensione soggettiva del tempo.
Infine il vivente. I biologi definiscono la vita con attributi attivi: irritabilità (sensibilità) nutrizione, accrescimento, (auto)riproduzione. Si omette la morte. Già, le piante in teoria camperebbero in eterno, le spore dei microrganismi potrebbero resistere per chissà quanto, ma fatto sta che nel vivente differenziato e specializzato l’invecchiamento e la morte sono fenomeni ineluttabili. Non c’è una legge che lo preveda, e in biologia non ci sono leggi ma dogmi, affermazioni assolute che attendono di essere contraddette, ma finora la “sora nostra morte corporale”, come la chiamava Francesco, non è mai stata contraddetta. L’invecchiamento e la morte danno un chiaro valore d’irreversibilità al tempo biologico. Molti pensano d’ovviare a questo fatto della morte con l’idea che la vita è una, e le morti individuali, o d’intere specie che si estinguono, non spengono la Vita in generale.
Per noi animali superiori, fortemente individualisti, sembra un po’ poco. Il nostro tempo interiore sta come sospeso tra il nostro tempo biologico e il tempo che vorremmo esterno, reversibile ed eterno, il tempo fisico. Invidiamo le pietre che esistono prima di noi e continueranno ad esistere senza che la nostra esistenza sia riuscita a scalfirle. E’questo il paradosso dell’opposizione tra vivente e minerale: il vivente così vivo non lascia traccia di sé, se non incidendo le pietre.

Il Racconto
Il Palazzo s’alzava su un falso altopiano della Campagna Romana, a pochi chilometri dalla Città Eterna, quindi a seconda da dove lo si guardasse poteva dirsi in cima a un colle o in pianura. In realtà non era facile vederlo, l’attenzione ricadeva piuttosto sulla vicina e diroccata torre quadrata, quale isolata, antica presenza in quel punto.
Quella notte però il palazzo era illuminato e illuminato anche il piazzale antistante e l’abete all’estremità del pianoro, pieno di luci, mentre la campagna circostante restava oscura e deserta: come ogni anno e solo in quella data si dava ricevimento.
Entrando, calpestando il lucido pavimento di marmo, non saremmo sfuggiti ad un’atmosfera di vibrante tensione. Il grande salone affollato ma silenzioso, tutti guardavano verso il padrone di casa in cima alle scale, lui pure teso e in certo qual modo insofferente.
Come ogni anno il Tempo, signore del Palazzo, convocava qui gli anni, i secoli e i millenni, passati e… futuri. Come ogni anno, in quella notte si sentiva stanco e insoddisfatto e, come al solito, il festeggiato tardava. Il Duemilaotto, dell’era cristiana, non si era ancora presentato. La paura aveva, dunque, preso anche lui, come tutti quelli che l’avevano preceduto, e che ora aspettavano muti. Solo tra gli anni futuri qualche brusio, addirittura gli sembrò di sentire una risatina.
Il cancello cigolò, una ventata fece capire che il portone silenzioso si apriva: il Duemilaotto arrivava. Il suo passo era leggero: “Che sia femmina?” si sorprese a sperare il Tempo.

venerdì 28 dicembre 2007

Mandarini di Sicilia

In tema di Natale, bambini, ricordare e profumi, Kalos mi ha mandato un suo scritto.
Qui sotto ne riproduco alcune parti, in accordo con l’autrice:


Un poco più discosta, c’era una cassetta piena di mandarini. Era il loro aroma, l’odore che aveva sentito, camminando. Rimase fermo, cercando di comprendere ciò che gli stava accadendo. Era qualcosa di portentoso; stanchezza e malumore erano spariti, sostituiti da una sensazione di benessere mai provata. Era uscito di casa malvolentieri, già stanco, spossato. La notte aveva dormito male, anzi non aveva dormito per niente. I gemelli si erano esibiti in un concerto senza fine, in accompagnamento a perentorie richieste di ciucci e biberon. Da dove veniva ora quella beatitudine? Essa era legata con certezza al profumo dei mandarini. Ma perché? I piccoli globuli giallo-arancio erano ancora attaccati ai loro ramoscelli, in mezzo alle foglie verde scuro. Ne aspirò intensamente il profumo, se ne riempì i polmoni, lo trattenne dentro più che potè. L’emozione lo riprese. Era calore, tenerezza. Un ricordo, relegato chissà in quali antiche e buie profondità del suo essere, stava risvegliandosi, si dibatteva per risalire alla luce. Provò ad afferrarlo. Cercò di svuotare la mente da ogni altra realtà e concentrarsi su quel profumo di mandarini. Ma la percezione era troppo vaga, immersa in una remota oscurità, non si lasciava riconoscere e fuggiva lontano.
Erano le sette, quando finalmente tornò a casa. Sentì la moglie che giocava con i bambini nella cameretta. Dalla cucina arrivava il debole chiarore del faretto che illuminava il camino. Si mosse in quella direzione attratto da un intenso aroma, lo stesso della mattina. Nella penombra si accorse che intorno alla cappa del camino c’erano, come una ghirlanda, rami intrecciati di mandarini: i frutti scendevano giù, illuminati dalla luce, splendenti nel loro abito d’oro, come decorazione natalizia.
All’improvviso il ricordo, che l’aveva seguito e turbato tutto il giorno, gli si palesò nitido, intatto. Era il ricordo di un profumo di mandarini, quei mandarini che pendevano dalle ghirlande, che la gente della sua città, una città siciliana, usava appendere nel periodo di Natale intorno alle edicole, agli angoli delle strade e intorno ai presepi fatti alla buona, con qualche statuina raccolta qua e là, offerta dai vicini. Le strade, allora, perdevano il loro abituale grigiore, si coloravano di verde, di arancio, diventavano giardini profumati. Si rivide bambino, nelle sere che precedevano le feste natalizie, quando con la mamma andava alle novene che si tenevano proprio davanti a quegli altarini improvvisati.
Sere di dicembre buie, fredde, le mani nelle tasche del cappotto e il bavero del colletto alzato. Risentì, come allora, la voce della mamma, che gli sussurrava all’orecchio: “Hai freddo?”, gli tirava ancora più su il colletto del cappotto e glielo teneva ben stretto intorno al collo. La gente attorno cantava a voce alta: “Tu scendi dalle stelle…”. Poi arrivava suo padre. Lui allora svelto, tirava fuori le mani dalle tasche del cappotto ed afferrava quelle dei suoi genitori, le stringeva forte. Non si sarebbe più mosso da così.
Si riscosse, dirigendosi con impazienza verso la stanza dove sua moglie e i bambini seduti sul tappeto, lo aspettavano.".

venerdì 21 dicembre 2007

Racconto di Natale. Ottava ed ultima parte.



Non era per seguire le richieste degli uomini, che per quella notte in molti sceglievano di regalarsi dei profumi. “ Ma cos’è veramente futile per gli uomini, un profumo o la vita degli animali, regalati allo stesso modo?”, si sorprese a chiedersi Babbo Natale, troppo memore del discorso del gufo.
No, il profumo che Babbo Natale aveva in mente era tutt’altra cosa. Era un’essenza che avrebbe fatto ricordare, l’aroma di un tempo molto lontano, un tempo e un luogo da cui tutti sulla terra proveniamo, il giardino dell’Eden forse. Per questa comune origine un sentimento di solidarietà e fratellanza avrebbero dovuto infine prevalere sulle pretese della specie più aggressiva del Pianeta.
Babbo Natale, lavorò il mucchietto di alga come in pochi hanno mai saputo fare, i Re Magi, il mago Merlino, Gandalf, a detta di Tolkien, e pochi altri, e profumò così la sua slitta.
Le renne si alzarono e nel guardare il cielo stellato Babbo Natale pensò che lassù c’era indubbiamento qualcuno, ricordava certo, ma non ancora così bene. Avrebbe dovuto ringiovanire un altro po’ per vedere le cose con più chiarezza.


La mattina di Natale molti bambini sentirono un odore insolito nelle loro case. Erano bambini curiosi e fecero molte domande ai loro genitori: soprattutto chiedevano cose sugli animali, le piante e la Terra. Anche gli adulti sentirono il profumo di babbo Natale, ma erano quelli che erano rimasti, nel loro carattere, più giovani.

Fine

Racconto di Natale. Settima parte




Babbo Natale non aveva molto tempo a disposizione per cambiare i suoi doni, perché di questo si trattava, ora l’aveva compreso. L’aria frizzantina che si era levata, gli faceva bene, gli faceva venire delle idee. Intanto le renne, che non avevano partecipato all’assemblea perché troppo stanche, lo avevano raggiunto. Ora i cigni eleganti si accomiatavano e uno di loro nel sollevare il becco dall’acqua lasciò cadere un groviglio d’alghe sulla slitta.





Come gli uccelli terrestri abitano le cime degli alberi, così gli uccelli acquatici, galleggiando sull’acqua, abitano le cime delle lussureggianti foreste acquatiche formate dalle alghe. Mirabile adattamento. Da questo concordare di forme e funzioni, da questa variazione magistrale della natura che si ripete ma mai uguale, da uno dei suoi repertori più belli, non poteva non venire l’aiuto richiesto per Babbo Natale. In quel mucchietto di alga, che il cigno gli aveva porto cogliendolo dall’acqua di quel lago lucente, che profumo, che fragranza, stava racchiuso, una buona dose del segreto dell’universo. E forse era proprio un aroma, un profumo, l’unica cosa che quella notte Babbo Natale avrebbe potuto aggiungere in fretta ai suoi regali.

(continua)

Racconto di Natale. Sesta parte

Fu un attimo, poi l’allegria arrivò con una brezza sottile e frizzante, perché gli animali sapevano vivere la loro vita giorno per giorno, o notte per notte, erano ottimisti e avevano ancora un po’ di fiducia nel vecchio bambino che si faceva chiamare Babbo Natale. Salutarono in fretta e se ne tornarono chi alle sue occupazioni, chi al suo sonno. Babbo Natale era rimasto a metà, un po’ vecchio e un po’ bambino, e non sapeva decidersi. Ripensò a poco prima, a quando era arrivato a quel lago incantatore, alla sensazione che aveva provato inizialmente, che in qualche modo l’aveva fatto ringiovanire, perché aveva ricordato. Si era sentito in completa armonia con la natura, Ma aveva bisogno d’aiuto perché nella sua mente non era ancora tutto chiaro. Chissà se antiche divinità avevano abitato questi luoghi, se uno spirito del lago si sarebbe levato a consigliarlo. Fosse stata una dama, le avrebbe detto, gentilmente ma fermamente, che di una spada non aveva bisogno: le armi era tempo che arrugginissero sui fondali melmosi.

(continua)

venerdì 14 dicembre 2007

Racconto di Natale. Quinta parte


Babbo Natale ora stava fermo. Come i bambini, che sono così seri e attenti, quando vogliono capire il mondo che ancora non conoscono. Ma Babbo Natale no, il mondo lo conosceva, era stato sempre con lui, ma ecco aveva dimenticato. Aveva dimenticato l’origine, la comunanza, la solidarietà. Questa notte gli aveva regalato di tornare indietro, di ricordare com’era quand’era bambino. Eppure ancora non ricordava bene, il dove, come e quando tutto era cominciato, ma era certo che aveva a che fare con i bambini. I bambini che in tutto il mondo lo stavano aspettando, mentre gli adulti erano in verità assai distratti.
Il gufo parlò ancora. Parlava a nome degli animali di tutto il mondo, in particolare delle specie più minacciate, quelle sul cui capo pendeva il pericolo più grave, il pericolo dell’estinzione. I leoni sugli altopiani africani, le tigri siberiane, gli orsi polari, nelle loro tane tra i ghiacci, i lupi sulle montagne, le balene, le foche e le tartarughe nei mari, i pappagalli tropicali e tante altre specie, e le foreste e i fiumi e i mari anch’essi malati o in pericolo, si unirono all’unisono al gufo in un sospiro tuonante di protesta che investì Babbo Natale.

(continua)

giovedì 13 dicembre 2007

Racconto di Natale. Quarta parte



Ne aveva di cose da dire il gufo. Babbo Natale lo ascoltava ma, proprio come un bambino, senza mai stare fermo, sempre facendo qualche giochetto. Ora afferrava una lucertolina per la coda, ora accarezzava un bel soriano panciuto che era talmente sazio da imporsi d’ignorare quei topolini che ogni tanto facevano capolino tra i sassi. La sostanza di quel fatto straordinario, dell’adunanza insomma, era che gli animali avevano preparato pure loro una lista per Babbo Natale, ma non si trattava di giochi, anche perché loro meglio degli uomini sapevano inventarseli. Era piuttosto, Babbo Natale non doveva prendersela a male, una lista di lamentele. Si sentivano maltrattati dagli uomini e dimenticati da Babbo Natale, se non per diventare loro stessi dei regali. Questa moda degli uomini, essere considerati dei regali, dei giocattoli, era veramente troppo. Che ne sapevano gli uomini quanto poteva essere difficile la vita di ognuno, che a loro non mancavano problemi, sofferenze e difficoltà d’ogni tipo. “Ma almeno fra noi alla fine ci rispettiamo” disse il gufo con voce grave sollevando il petto piumato.

(continua)

mercoledì 12 dicembre 2007

Racconto di Natale. Terza parte


Accostato che fu, Babbo Natale non potè non sorridere all’animalesca assemblea che lo stava aspettando. La maggior parte, data l’ora, erano animali notturni e selvaggi, per quanto l’invadenza umana ancora consentiva. Qualche donnola e faina erano scese giù dalla montagna, dei topolini stavano nascosti tra le gallerie della scogliera, pipistrelli volavano in cerchio. Molti randagi, amici della notte, erano venuti, cani e gatti che per l’occasione si erano accordati ad una tregua, ma anche qualche signorino d’appartamento in libera uscita. E naturalmente gli animali acquatici, un’anguilla che scivolava dai canneti e bisce d’acqua e ranocchie. Dei tonfi annunciarono un cinghiale che rimase più indietro. Qualche lucertola pensò di svegliarsi. Anche riccetti e scoiattoli, che vollero essere per una notte un po’ meno timidi. I ragni si spostarono in basso nelle loro tele sospese tra gli alberi. Tanti piccolissimi esseri erano presenti tra acqua, terra e aria. C’era pure una scimmietta che faceva capriole sulla sabbia, e nessuno sapeva da dove era arrivata. Babbo Natale a vederla non potè fare a meno d’imitarla, perché ormai si sentiva un bambino, e volle correre e saltare, tirare i sassi sul pelo dell’acqua finchè si fermò a fare versi al barbagianni. Il gufo sui rami del salice lo apostrofò: “ Prego signor Babbo Natale, la questione è seria”.

(continua)

martedì 11 dicembre 2007

Racconto di Natale. Seconda parte


I primi a farsi notare furono i pesciolini che, ora lo vedeva bene, guizzavano intorno a lui, mentre con la coda dell’occhio aveva già notato il fianco poderoso di un luccio che lo seguiva a distanza. “ Veniamo tutti dall’acqua, ricordi?”, gli sembrò che sussurrassero. Ora Babbo Natle cominciava a capire che in qualche modo stava tornando indietro, verso l’origine, per questo gli sembrò che la notte rischiarasse e che ogni cosa e ogni essere potessero parlargli perché li comprendeva. Com’era stato una volta, tanto, tanto tempo fa, quando era stato veramente giovane, come lo era stato il Pianeta. L’aria ora palpitava di battiti d’ali, uccelli notturni, ma anche oscure farfalle e bianche, temerarie falene. A Babbo Natale, che ormai si sentiva un ragazzo e si meravigliava della sua lunga barba, parve che i cigni rallentassero invece di spiegare le loro magnifiche ali, anzi puntavano indiscutibilmente verso una riva vicina che sembrava affollarsi sempre più.


(continua)

lunedì 10 dicembre 2007

Racconto di Natale. Prima parte


Proprio quando arrivò in prossimità del piccolo lago lucente e tranquillo Babbo Natale si accorse di essere molto stanco. La notte era ancora lunga e sentendo che le renne condividevano la sua stanchezza decise di fermarsi un poco. Ormai si era spinto parecchio a sud. Dei cigni gli si fecero intorno. Si capirono a volo: i cigni avrebbero per un poco sostituito le renne dormienti e trasportato il vecchio Babbo e i suoi sacchi ricolmi con la barchetta che stava sulla riva e annuiva al moto di piccole onde.
Ma quando fu dentro, e i cigni correvano sul pelo dell’acqua, che mormorava contro i bordi dello scafo, e c’era da giurarci che avrebbero di lì a poco decollato, Babbo Natale si sentì molto strano: la stanchezza svaniva e gli sembrava di sentirsi, come dire, ecco, sì, che stesse ringiovanendo. Proprio lui, il vecchio Babbo Natale che ringiovaniva? Gli venne da ridere.



(continua)

domenica 9 dicembre 2007

Un altro momento di crisi nel Paese


Un altro momento di crisi nel Paese. Sono i fatti che avanzano, l’andare delle cose cui i politici non sanno star dietro, figuriamoci prevederli o prevenirli. Altri squillanti aumenti dei prezzi ormai ovunque, ubiquitari. I piccoli aumenti di stipendio che qualche categoria cominciava a considerare, sono già risucchiati. Questa volta non c’è nemmeno una causa precisa di cui i furbi si siano approfittati, come il caso dell’euro, un giochetto tutto italiano, nel passaggio da una moneta all’altra, voilà tutto costò il doppio. Gli stipendi no, non godettero di questa, chiamiamola, svista. Per la quale una parte degli italiani si ritrovò dal punto di vista dei suoi averi, della sostanza cioè, raddoppiata, e l’altra dimezzata. C’era chi diventava sempre più ricco e chi sempre più povero, mentre i conti pubblici andavano a picco.
Il nuovo governo ha puntato al risanamento delle casse dello Stato chiedendo sacrifici a tutti, ma i poveri, se non si applicano le giuste proporzioni nelle richieste, è un paradosso che non si riesce a correggere, pagheranno in proporzione sempre più dei ricchi, condizione aggravata dal fatto che una parte del Paese è evasore fiscale. Quindi, con il risanamento i poveri hanno continuato ad essere sempre poveri e qualche volta anche più poveri. Da dimezzati corrono il rischio quando finalmente i conti siano “risanati”, quando "saremo a cavallo", di ritrovarsi senza più sostanza, cavalieri inesistenti noi, altro che i nostri antenati. Lo strumento principale per il risanamento adottato dal governo, triumviri in carica all’uopo Prodi, Padoa Schioppa e Visco, è stato, con significativa creatività, l’aumento delle tasse, che alla fine ci ha raggiunto tutti, tranne proprio i poverissimi. Probabilmente non sanno far altro. Pare che le entrate siano state buone, ma oggi, ai primi di dicembre, risulta che i conti pubblici non sono migliorati granchè, non si riesce a controllare l’aumento dei prezzi, le misure di liberalizzazione limitate e inefficaci. Forse già da tempo si sarebbe dovuto pensare anche ad altri interventi e agire con più efficacia. Le cose fatte tanto per far vedere si dimostra che non servono a nulla, come nel corpo umano, quando si prende una medicina, quello che conta sono le dosi. Anche se la maggioranza al Senato è quella che è, governare vuol dire anche avere coraggio e affrontare i problemi per cercare di risolverli. Perché l’equità non sia solo un’astrazione e il Buon Governo sia lo stesso ideale della nostra gloriosa civiltà comunale, quello dell’affresco del Lorenzetti.

giovedì 29 novembre 2007

Paisà. I conti che non tornano in tasca agli italiani.


“ Basta che ce sta o sole, basta che ce sta o mare…”: una volta, forse, quando tutti eravamo più poveri, i poveri erano la maggioranza, il cielo e il mare senz’altro meno inquinati. Oggi i ricchi sono tanti e diventano sempre più ricchi, e i poveri, ahinoi, ridotti qualche volta a minoranza ma che, non tutelata, diventa sempre più povera, e quindi senza sbocco, in un paesaggio urbano di periferia e, nelle campagne, in antichi borghi divenuti una periferia omologata.
Certo il villaggio globale, ma da noi è in atto ormai da circa trent’anni, da Tangentopoli in poi, un processo in cui i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Non c’è governo che riesca ad invertire questo trend così iniquo. Anche il governo di sinistra che vuole risanare pensa prima alle casse dello Stato, che in verità in questo ha seguito le sorti dei suoi cittadini più poveri, e prende delle misure che, per le condizioni fiscali diciamo così particolari del nostro Paese, finiscono per gravare sempre sulle stesse groppe, e non c’è mai, proprio mai, margine per una più equa redistribuzione del reddito.
I “bonus” che la sinistra cosiddetta radicale vorrebbe strappare all’intransigente tesoriere Padoa Schioppa, questi tesoretti, misure di cento euro ai più bisognosi, servono solo a far la finta, come un aroma d’equità, al posto della sostanza, come quando c’erano il surrogato del caffè e del cioccolato, al posto di quelli veri. Ancor peggio le elargizioni a pioggia, tipo “Leviamo a tutti l’Ici sulla prima casa.”, dove l’equità è quella fasulla perché senza proporzione, in quanto sgravando allo stesso modo ricchi e poveri si finisce per favorire in proporzione i ricchi. Anche per i ricchi occorre difendere il diritto alla casa?
Il nostro Paese è tra i primi in Europa per avere i lavoratori dipendenti con gli stipendi più…bassi. Il potere d’acquisto di questi stipendi è diminuito nel giro di cinque anni di 1900 euro. Sono gli ultimi dati e parlano con una chiarezza che non ha bisogno di commenti. Intanto si registra l’ultimissimo aumento dei prezzi dei generi alimentari. E se qualcuno dice che quanto si spende per mangiare è il minimo delle uscite, è chiaro che è ricco e comunque è un cretino. Anche l’esercizio di calcolare il risparmio dell'italiano medio, che “Il Sole 24 ore” ha attestato sui dodicimila euro nel conto corrente, questo basarsi su valori medi, non chiarisce lo stato reale delle cose quando gli estremi dei guadagni percepiti vanno dagli imprenditori che guadagnano al mese… , gli stipendi di grandi manager e dirigenti che guadagnano al mese…, i parlamentari…, ai pensionati con una pensione al di sotto dei seicento euro mensili.
Potremmo essere arrabbiati, indignati, disperati e infine indifferenti se non fosse per i nostri figli. In un paese dalle molte caste – inutile citare i dati per cui siamo ancora tra i primi in Europa per stagnazione sociale - è comunque difficile trovare il posto per chi provenga da famiglie normali, figuriamoci quando la crescita è in eclissi e notai, avvocati, professori universitari, medici, giornalisti ecc. ecc. ecc. hanno già sistemato anche i nipotini. E poi si discute sul merito nei talk show della politica in televisione.

Giovanni Fattori. impressioni di una mostra.



Fontana di Trevi è ormai l’ombellico del mondo, ma poco più in là in Via della Stamperia, quando la folla comincia a diradarsi, è stato possibile, per il tempo della mostra, entrare nel paesaggio sommesso in bianco e nero, fatto di stampe e disegni, di Giovanni Fattori.
Ci si è presentata un’Italia ottocentesca, lontano dai salotti, i balli e le cene, contadina e risorgimentale, che troppo si è offuscata nei nostri ricordi. Un’occasione quindi per rafforzare quel percorso d’identità che noi italiani siamo in perpetuo condannati a ritrovare.
Il paesaggio, i fienili, i muri degli orti, i ponticelli sui torrenti, ormai perduti od obsoleti, uomini e animali spesso ritratti nei momenti di abbandono, di sosta, quando meglio il corpo esprime i sentimenti dell’anima. I soldati delle guerre d’indipendenza ritratti non solo nella mischia della battaglia, ma negli istanti più semplici e privati della vita quotidiana.
Per questo il taglio è molto spesso fotografico, ci richiama il cinema della cinepresa per la strada, col suo soffermarsi sui particolari più umili, come gli zoccoli dei cavalli, il suo riprendere la scena alle spalle. Per questo è importantissimo il taccuino dei disegni, esposto per la prima volta, e sfogliabile virtualmente sullo schermo del computer, per riconoscere questa grammatica espressiva.
Meglio di ogni altra parola, quelle dallo stesso Fattori rivolte in una lettera ad alcuni scolari nei primi mesi del 1898, riportate in un pannello dell’ultima sala della mostra:

“Io amo il realismo e ve l’ho fatto amare – le manifestazioni dela natura sono immense, sono grandi, non sempre si presenta di viva luce, non sempre si presenta triste e buia – gli uomini, gli animali, le piante hanno una forma, un linguaggio, un sentimento. Hanno dei dolori, della gioia da esprimere”.

Questo umanesimo della vita semplice, del quotidiano, quest’armonia della natura, nella quale i viventi tutti, uomini, piante e animali, e il paesaggio intorno, possono in un certo senso accordarsi tra loro, comunicare.
La mostra a cura di Fabio Fiorani.

mercoledì 21 novembre 2007

La scoperta del lupercale e il simbolo del partito democratico



Le notizie si rincorrono producendo effetti curiosi.
Ieri la scoperta del lupercale nella pancia del Palatino sopra il Velabro. La leggenda, scioccamente espunta dai libri di scuola, torna con prepotenza alla ribalta, con argilla, mattoni e una splendida decorazione della volta da lasciare a bocca aperta, come accadde a Michelangelo e Raffaello, quando si calarono con le torce nei buchi della domus aurea.

Oggi il partito democratico, il cui loft sta proprio nei pressi del lupercale, con i suoi due fratelli Walter Veltroni e Dario Franceschini, presenta alla stampa il simbolo del partito. Si dice che ci sarà l’ulivo, ma forse in filigrana o ad un occhio esperto, in controluce o magari solo in particolari condizioni di luce o temperatura, sarà possibile vedere sul fondo il profilo della lupa capitolina.
Con buona pace dei settentrionali, specie se leghisti, questo partito sarà romano. Gli auspici parlano chiaro.
E’ un passato troppo grande ed ingombrante, che riemerge dal sottosuolo e, come già fecero gli umanisti del Quattrocento, non si tratta d’imitare ma di gareggiare con gli antichi nel provare ad inventare il futuro.

venerdì 16 novembre 2007

Novembre

Le foglie rotolavano, s’alzavano nel vento e ricadevano giù: nell’atrio del vecchio albergo con la valigia a terra, a salutare e a guardare fuori pensando che stavamo per unirci a quelle foglie, a rotolar via nel vento e nelle nostre vite separate.

Ritrovo l’immagine in questa mattina di pioggia gelida che fa dire a Novembre, dopo tanto tepore, l’inverno è qui.
Il gusto dell’autunno, di qualcosa che muore, una messinscena funebre che nelle nostre zone temperate la natura sa orchestrare con grande maestria. Accende di rosso le moribonde sorelle foglie, rossa è la fiamma dei camini, che si risvegliano nelle campagne italiane, dove non ci si può sottrarre al quesito esistenziale: “Lo fai lo foco?”. D’arancio i cachi deliziosi, dolci e succosi come non mai i frutti estivi, e l’uva e le castagne: la natura sa coccolarci prima del commiato invernale.
Anche la nostra anima sembra sentire il bisogno di morire un po’, di accordarsi alla sinfonia in minore della natura. Un po’ di malinconia, un po’ rotolare come le foglie. Perché il vento ci porti in un altro luogo e in un altro tempo, in un’altra vita in fondo.
Perché sarebbe una morte da cui possiamo rinascere. Come il fiume in piena, che una volta non era così temuto. L’aspettavano gli uomini del fiume come cosa buona “che porta via il vecchio e fa nascere il nuovo”.

martedì 13 novembre 2007

Villa Torlonia


Eravamo stati a Villa Torlonia quando, sindaco della città Giulio Carlo Argan, i giardini si erano riaperti al pubblico, tanta gente in un pomeriggio domenicale. Gli edifici no, distanti, transennati e malconci.

Siamo tornati quest’anno, in una mattinata tersa di Settembre. Da poco terminato il restauro del Casino Nobile, subito in vista dall’accesso principale dalla parte di via Nomentana. Le bianche colonne neo-ioniche della facciata e quelle rastremate, neodoriche e neoclassiche di Giuseppe Valadier, che ci rimandano alla Villa Borghese e alla Casina sul Pincio, si stagliano tra il cielo e la vegetazione.


Altri complessi sono stati già restaurati, come la Casina delle Civette, incredibilmente recuperata, a confronto con la documentazione fotografica che, al piano terra del Casino Nobile, rende testimonianza delle vicende trascorse, e del degrado in cui la Villa era caduta. E’ senz’altro una rinascita: ottimo, accurato restauro e pubblica destinazione con gli edifici divenuti aree museali e l’inserimento nella vita del quartiere con il centro anziani e lo spazio per le attività dei ragazzi, affrontati, il primo alle Scuderie Nuove il secondo nel Villino Medievale.
Dalle cronache cittadine abbiamo raccolto critiche e lamentale per lo stato della Villa che si estende oltre la Limonaia e il Campo da tornei, incuria dei giardini e cattivo uso da parte dei visitatori. Ma il restauro prosegue, e riguarda proprio quest’area più abbandonata: stanno per iniziare i lavori per il recupero della Serra e della Torre Moresca, ritenute importanti esempi romani di architetture in ferro e vetro. Si spera, così, che tutta la Villa possa essere recuperata, conservata e rispettata nell’uso dai visitatori. Per mantenersi realmente quella che a noi Villa Torlonia è sembrata in una splendida mattina romana, proprio per la storia, il restauro e la sua pubblica destinazione: un sogno, un’isola.
Se non fosse stato per la mostra di Scipione, in corso al Casino dei Principi, a ricordarci che non fu e non è placida la città che scorre fuori ma intorno a noi. Tentacolare luogo di potere e di cortigiane, e cortigiani. A fare da contrappeso, all’equilibrio e alla leggerezza neoaclassica. Alla costruzione estetica e crepuscolare voluta da un principe ancora committente e servito da un artista come Cambellotti, nella Casina delle Civette. Dalle lumachine di marmo, i battiti d’ali d’uccelli notturni e un girotondo di pipistrelli, immagini che dalla Casina ci rincorrono, al rosso, al magma di Scipione. Un bicchiere di vino forte, una scossa che ci riporta alla carne, all’arte che esprime la sofferenza.
In mezzo una stratificazione nello spazio e nel tempo. Nel sottosuolo le catacombe ebraiche. Sotto il Casino Nobile il bunker voluto dal duce. Al secondo piano sopra le sale dipinte nell’Ottocento ci sorprendono pallide pitture dove si balla e si suona sotto le palme hawaiane: testimonianza non abrasa dell’alloggiamento delle truppe alleate nella Villa. Quindi, il Museo della Scuola Romana. Tra le correnti del Novecento che più si opposero all’arte promossa dal regime il cui capo abitava le stanze sottostanti.
Fuori, l’ansia del traffico fa presto a riprenderci.

venerdì 9 novembre 2007

Il messaggio di Olmi


Un grande, commosso, tributo popolare ha salutato Luciano Pavarotti e ora Enzo Biagi. La gente ha cuore, riconosce i suoi eroi, quelli che con lei non hanno mai perso i contatti.
L’analisi storico-sociale che dall’alto e da tempo si porta avanti, basata sulla contrapposizione tra politica e antipolitica, e che presuppone una massa di gente incolta, irresponsabile e distaccata dai valori, si va mostrando sempre più infondata. Ha cozzato contro un popolo che ha partecipato alle manifestazioni di Beppe Grillo “ma anche” alle primarie del partito democratico. Lo spirito popolare, per fortuna, è ancora vivo in Italia, anzi trova sempre più le occasioni per esprimersi, anche se qualche volta sono tristi come da ultimo la scomparsa di Biagi.
A questo spirito ha guardato, alla gente semplice, ancora una volta, si è richiamato, Ermanno Olmi, nel suo ultimo e discusso film, “I cento chiodi”. Profondamente calato nell’analisi del caso Italia, Olmi è già stato autore de “Il mestiere delle armi” che illustra le vicende che precedettero il sacco di Roma del 1527. Cronaca quella di una Italia in primo luogo divisa, nella quale i signori e i principi italiani col badare, nel pericolo, ciascuno ai propri interessi collaboravano, in questo sì, alla rovina collettiva. Ne “I cento chiodi” l’Italia che incontriamo sul fiume è fatta di persone un po’ fuori dai ritmi della vita moderna, che mantengono dei tratti genuini regionali: proprio per questo è gente che sa raccogliere il messaggio di fratellanza, di scambio d’esperienze, emozioni e sogni. Che la cultura non si trovi che in parte sui libri, ma l’acquistiamo col nostro guardarci attorno, nel nostro rapporto con le cose e con la natura, e soprattutto col saper cogliere nel contatto con gli altri suggerimenti, idee e sentimenti; che ognuno che incontriamo, il nostro prossimo, può dirci qualcosa d’interessante su cui valga la pena di riflettere, come mostra di fare il professore-Gesù con la gente semplice sulla riva del Po: Olmi ci ha fatto ricordare che queste sono cose in cui abbiamo sempre creduto. A quest’idea movimentista della cultura molti professori, e dottori, oracoli della cultura d’elite, oligarchica, hanno reagito stracciandosi le vesti di fronte all’immagine, certo forte ma metaforica, dei libri inchiodati. Quando ad essi non corrisponde più un’esperienza di vita.
La vita nuova del professore di Olmi, invece, da un lato è un’imitazione di Cristo, come nella più genuina religiosità medievale, e nel rifarne il cammino riscopriamo ancora una volta la forza del suo messaggio; dall’altro proprio per la natura di questo messaggio, valido per credenti e non credenti, è un discorso sugli uomini, sulla qualità dei rapporti tra le persone e con la natura, su cui porre, ritrovare, le basi della nostra convivenza, di una società solidale, e dell’armonia con le altre specie e con il pianeta.
Alla chiusura del secolo dei lumi, nel sostenere la figura dello scienziato dilettante, da cui si sentiva rappresentato, e destinata invece a declinare nel corso dell’Ottocento, Goethe, che in verità dette molti contributi a diverse scienze, in particolare all’anatomia comparata e alla morfologia, scriveva a conclusione de “La teoria dei colori”, richiamandosi anche lui all’esperienza, al farsi del sapere: “Le scienze poggiano, molto più che l’arte, sull’esperienza, e nel trattare con questa molti sono abili. Ciò che appartiene alla scienza riceve contributi da più parti, e non si può fare a meno di più mani e di più teste. Il sapere si può trasmettere, i suoi tesori possono venir ereditati e quanto viene acquisito da qualcuno viene fatto proprio da altri. Non vi è dunque chi non possa offrire il suo contributo alle scienze. Di quante cose non siamo debitori al caso, alla pratica, all’attenzione di un istante? Tutte le nature dotate di una sensibilità felice, le donne e i bambini, sono capaci di comunicarci osservazioni vivaci e pertinenti.”.
Un altro modo per descrivere una società aperta, in grado di avvalersi del contributo di ciascuno di noi.

Charles Dickens



Nel comporre l’elenco, esercizio sempre molto in voga, dei maggiori scrittori europei tra Ottocento e Novecento, le cui opere abbiano avuto maggiore influenza fino a noi, se non mancano mai in vetta Proust, Tolstoj e Kafka, spesso ci si dimentica ingiustificatamente di Dickens.
Sempre segnalati, in primo luogo, i difetti di struttura dei suoi primi romanzi, in quanto pubblicati a puntate sui giornali. L’etichetta che fu data, con una connotazione negativa, ai suoi lavori di “romanzo sociale”, contro il quale si esprimevano snobbisticamente diversi colleghi contemporanei e successivi. Forse pesava e pesa tuttora la difficoltà da parte del borghese, specie se ricco, di accettare la satira feroce che Dickens non gli risparmia, lo spirito popolare che Dickens non disconosce.



Eppure, ci ha lasciato creazioni potenti. I suoi luoghi-non-luoghi, a cominciare dalla “bottega dell’antiquario”. Luoghi anzitutto metaforici, botteghe, taverne e altri luoghi particolari, il cui nome spesso è già un piccolo gioiello da assaporare, come la taverna in riva al Tamigi, o meglio il raffinato locale di degustazione, noto come “Sei facchini allegri”, in “Il nostro comune amico”. Come i cumuli di rifiuti, trasformatisi in ricchezza, che fanno lo sfondo di questo romanzo. Da rivedere oggi che la questione dei rifiuti ha un’urgenza planetaria.
I suoi personaggi. Una galleria ricchissima, anch’essa perciò criticata, ancora da studiare, analizzare e catalogare. Come le sue tante piccole donne. Come la piccola Nell. Sarà forse ancora un personaggio-non-personaggio, il centro vuoto del romanzo, ma come dimenticare i suoi passi quando lei e il nonno lasciano Londra una mattina, pagina stupenda; come non vivere con lei la terribilità delle notti trascorse nella città industriale, popolata dalle torri dei forni, “quando il fumo si cambia in fuoco”; non soffrire con lei e per lei la cattiveria e l’insensibilità degli adulti, come quando è tratta in barca dai suoi inseguitori.
I buoni e i cattivi. La divisione è assoluta, manichea. I buoni si riconoscono tra loro, le loro case sono allegre e i loro natali gioiosi anche nella povertà. I cattivi abitano case desolate. Quest’assolutismo preannuncia l’idea del doppio, della crisi d’identità e l’ambiguità morale che sarà tanta parte dell’opera degli scrittori dopo di lui, già affacciati sul Novecento, come Robert L. Stevenson e Joseph Conrad. Il maestro Breadley Headstone, in “Il nostro comune amico” e John Jasper, maestro del coro in “Il mistero di Edwin Drood” sono in procinto di trasformarsi nel doppio Jekyll-Hyde.

giovedì 1 novembre 2007

Il partito del loft alle pendici del Palatino




Qualcuno l’ha chiamato il partito del loft per sottolineare la novità della scelta della sede in Roma del nuovo partito democratico. Non più i fastosi palazzi della Roma barocca, ma dei locali che fino ad ieri son stati dei magazzini, da ristrutturare e arredare con semplicità e modernità, proprio come un loft. Come dire che si cambia abito, e per farlo si ricorre ad un nuovo ambiente e ad architetti nuovi, per il nesso dell’architettura contemporanea con la moda, per la sua tendenza nel progettare gli ornamenti a farsi arte del vestire.
Il luogo, però, dove questi locali si trovano, è particolarmente suggestivo, al lato della chiesa di S. Anastasia, tra il Circo Massimo, che si vede dalle finestre, e il Velabro. Qui in un tempo antico il Tevere formava la palude dove, secondo la leggenda, il pastore Faustolo avrebbe trovato i due gemelli, futuri fondatori della città. Sul Palatino, proprio sulla parte che si eleva in questo punto, in corrispondenza della grotta in cui furono allattati dalla lupa, il lupercale, Romolo, avrebbe quindi edificato l’antica reggia. In questo luogo, per richiamarsi alla tradizione, Augusto costruì il palazzo imperiale.
L’adiacente chiesa di S. Anastasia fu eretta da papa Damaso, al posto di un edificio con botteghe e appartamenti, ai piedi del colle su cui sorgevano i palazzi imperiali. Le vicine chiese di S. Teodoro, di San Giorgio al Velabro e di S. Maria in Cosmedin, alla Bocca della Verità, sorsero intorno al 600, come centri d’assistenza cristiani, al posto di quelli che erano stati magazzini imperiali. Con questi cambiamenti di destinazione d’uso la Roma cristiana s’era andata sostituendo a quella pagana.
Walter Veltroni, attuale sindaco della città, ha ricordato, nel motivare la scelta della sede in cui il partito democratico andrà ad incastonarsi, l’importanza e il grande risalto della zona archeologica romana.
Sarà un loft ai bordi dell’antica area sacra della città.
Potremmo dire che, pur cambiando d’abito, ancora una volta il rinnovamento si legherà all’antico, che sarà ancora l’area sacra di questa città ad esserne testimone. Sarà una nuova Roma. Magari il 2008 sarà “ab partito democratico condito”. Veltroni e Franceschini, presentatisi insieme al mondo dopo le primarie, novelli Romolo e Remo. La città avrebbe ancora i suoi due fratelli, come i Dioscuri di Monte Cavallo, l’attuale Piazza del Quirinale, come i fratelli nella fede della Roma cristiana, i suoi due santi-patrono, Pietro e Paolo.

martedì 30 ottobre 2007

il colore verde e il nuovo partito democratico



Il verde che ha fatto da sfondo all’investitura di Walter Veltroni a segretario del partito democratico, a Milano, induce chi come me perditempo ad interrogarsi sul significato di questo colore che sembra destinato a rappresentare nei simboli il nuovo partito.
Può semplicemente essere accaduto che le foglioline e le olive dell’Ulivo, che giusto in questo periodo si raccolgono, cadendo giù, si siano sapientemente raccolte a circondare l’insignito segretario e che questi guardando l’effetto, nell’ennesimo giorno della creazione, trovandosi in terra padana, abbia pensato che era cosa ben fatta.
Il verde è il colore della speranza. Goethe, che sui colori aveva molto meditato, con un’avvincente anche se errata teoria sulla loro origine, riteneva quest’uso piuttosto arbitrario, o convenzionale, e non immediatamente derivabile dall’esperienza del colore.
Il verde quale sinonimo di età giovanile, invece, come nell’espressione nel verde degli anni, sottintende chiaramente un paragone preso dalla botanica.
D’altra parte, figuratamente, si dice anche di qualcuno che ha il colorito verde per rappresentare che non si sente bene. Quest’ultima accezione lo ravvicina all’uso presso gli anglosassoni di legare questo colore agli spettri o agli alieni. Si veda il film Ghostbusters, si pensi al cavaliere Verde in cui incappò sir Gawain una sera mentre si sedeva alla tavola rotonda.
Come effettiva esperienza del colore, Goethe vede il verde come il figlio in cui i genitori, i colori primari da cui deriva, il giallo e l’azzurro, si equilibrano perfettamente con la conseguenza che: "occhio e animo riposano su questo composto come se si trattasse di qualcosa di semplice. Non si vuole, né si può procedere oltre." Con la conclusione che è il colore prescelto per la tappezzeria delle stanze di soggiorno.
Non a caso, il verde è il colore dei paramenti delle funzioni della chiesa cattolica nel tempo ordinario.
Se riportiamo quest’esito di tappezzeria del colore verde al partito democratico ci si preoccupa un po’. In fondo, ancora Goethe, acuto osservatore, ci dà qualche indicazione, di un’inclinazione nostra verso il colore rosso: "Popoli che ripongono grande valore nella dignità, come l’italiano e lo spagnolo, fanno tendere il rosso dei loro mantelli verso il lato passivo."
Chissà se siamo ancora così ma, insomma, questo verde andrebbe un po’ acceso.

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