mercoledì 31 dicembre 2008

lunedì 22 dicembre 2008

Saga di Natale

Maria è all’opera, intenta alla costruzione del presepio. Siccome sa che ci perderà del tempo come ogni anno vorrebbe rinunciare, sfuggire all’impresa ma poi pensa che è un appuntamento unico, un’occasione da non mancare. Deve immaginare un disegno per tessere la sua tela, inventarsi una geografia perché vuole che sul lungo ripiano della bassa libreria un paesaggio prenda forma e quindi vita. Ci sarà come sempre una città sollevata sulla collina con le mura rotonde e merlate – un semicilindro di cartone colorato di grigio scuro - e la fessura di una porta ad arco. Quest’anno la circonderà di altre costruzioni di cartone che ha fatto da sè, userà per questo tutti i pezzi che possiede, quinte di muri diroccati che aprono verso la campagna.




*


Questa mattina la città si è svegliata come da un lungo sonno e brulica di gente in grande attività. Sulla porta che guarda verso la campagna il venditore di salumi ha già piantato il suo banchetto e tiene una povera oca appesa al bordo. Giù nella vallata però è pieno di ochette vive nelle aie e sulle sponde erbose del fiume, tra ciottoli bianchi e grigi. Creste di colline e montagne si sovrappongono a contendersi l’orizzonte chiuso. Signora della vallata è l’acqua che scorre in diversi modi, che accompagna con diverse canzoni: un mormorio sommesso nel fiume ampio che curva dolcemente proprio poco oltre l’acuto ponte medievale, un gorgoglio nei tratti di torrente che scendono dai pendii, appena un sussurro nei laghetti che il fiume impigrito rigirandosi con le sue anse disegna qua e là. Ponticelli rustici come un abbraccio ruvido raccordano le rive opposte e a loro volta sembra che dicano cantando:
- Sì, si può passare, non c’è separazione, qui è tutto in armonia!
L’acqua non si contenta del fiume, vien fuori anche da fonti e fontane che parlottano e sciorinano senza posa in scie argentine le filastrocche e tutte le vecchie storie e gli accadimenti che hanno visto e a loro volta sentito raccontare.






Il pozzo, che sta di fronte alla corte diroccata dai muri rosati che attraversa le acque del fiume e fa con le sue aperture da cannocchiale alla valle, quando il secchio riposa, si compiace di rispecchiare il chiarore del cielo e solo qualche nota sale ogni tanto dalla sua pancia.











Il pastore Ieli è arrivato da molto lontano. Le sue pecore si sono ammalate e sono morte e allora si è messo in viaggio in cerca di fortuna e tutto ciò che possiede sta in quel panno bianco annodato che gli pende da una mano. Questo luogo gli piace, la campagna tranquilla gli darà un po’ di pace, forse troverà qui un lavoro o se no affronterà la città che gli sembra grassa e ricca e proverà così a cambiare la sua vita. Intanto beve l’acqua della fonte di marmo dai riflessi azzurrini incastonata nella roccia sotto le mura della città, ed è come una piccola cappella luccicante in cui entrare, e mangia il suo panino.







La vecchia torre solitaria sta proprio di fronte al ponte rustico basso sull’acqua coi muretti arrotondati, al centro della lunga vallata. L’abita una vecchia solitaria anche lei, che sta sempre sull’aia con la sua conocchia in mano a guardare chi passa sul ponte. Ha avuto figli e nipoti ma tutti alla fine sono partiti.






Vive con i suoi animali e chi passa dal ponte li trova sempre lì nell’aia.





La donna graziosa che viene dalla fontana col tetto di tegole rosse, è vestita d’azzurro e le sue brocche sembrano d’argento.






Forse è la fata turchina, ma ha un figlio e lo ha allevato da sola. In città si mormorò che il padre fosse il poeta dal passato tormentato venuto dall’altra parte delle montagne. Ha sulle spalle uno scialletto grigio e anche se la giornata è ormai quasi trascorsa e sta facendo buio arriverà fino alla capanna poco lontana perché le hanno detto che c’è qualcosa da vedere.




La bimba coi riccioli biondi non vuole andare dalla vecchia con la conocchia nella torre solitaria perché le fa paura e lì sul ponte rustico basso sull’acqua tira la mano della madre per tornare indietro ma la madre non l’accontenterà perché ha sentito delle voci e vuole sapere dalla vecchia con la conocchia che cosa c’è di nuovo nella vallata.








I pastori sono giunti con le loro pecore alla capanna che è costruita dentro la montagna e hanno visto.


*


Maria si lascia di sistemare la capanna per ultimo. E’ già pronta, di legno, grande e con i personaggi incollati. In genere la ricopre un po’ con la carta delle montagne per guadagnare spazio e raccordarla col resto del paesaggio, così è una capanna costruita dentro la montagna come certe taverne. La capanna sta fuori della città, anzi in questo presepio che si svolge in lunghezza sulla libreria sta proprio dalla parte opposta: la città e la capanna sono ai due estremi del paesaggio; infatti, pensa Maria, sono anche idealmente in opposizione. Arriva suo figlio, guarda e commenta che, così in fondo com’è messa, la capanna sembra solo il pretesto per la costruzione del paesaggio, proprio come in certi ritratti inglesi succede per il soggetto umano rispetto al paesaggio che lo circonda, e non serve spiegargli che è stata messa lì apposta, ma forse ha ragione lui.
Maria ci riflette un po’ mentre finisce di disporre il muschio e le erbette, ma si distrae perché il muschio le fa ricordare quand’era bambina e il natale si passava insieme con la famiglia dello zio che portava i personaggi di gesso e cartapesta per fare il presepio. Lo si faceva sempre allo stesso modo e nello stesso posto, sul ripiano della Singer che veniva spinta in un angolo contro il muro: sul tavolo era tutta pianura con in fondo la capanna e da un lato la montagna che però era un altopiano perché era fatta di un rialzo creato con un po’ di libri e sulla montagna veniva sempre messo un pupazzetto vestito di marrone scuro con le mani alla bocca che strillava a squarciagola ma nessuno lo sentiva. Per ultimo si andava a cercare il muschio in campagna che ne serviva tanto con tutta quella pianura e l’altopiano, ora invece lo si compra già pronto a pacchi. Maria abita in campagna e il muschio va prenderlo da una fontana scavata nel fianco di un monticello che ora ci hanno costruito una villa col muro di cinta ma nel muro hanno lasciato un’apertura ad arco acuto per la fontana: l’acqua scende dalla parete che è tutta tappezzata di muschio che sembra un presepio!
L’usanza di portare gli abeti in casa e fare addobbi con i suoi rami nel momento in cui con la festa natalizia sopraggiunge l’inverno ha un chiaro valore simbolico: facciamo entrare il verde in casa proprio quando scompare in natura e Maria con il presepio ha trovato il modo di portarsi in casa un paesaggio intero! Un paesaggio atemporale, mitico, fatto della campagna che simbolicamente si oppone alla città, e anche se questa non fu l’ispirazione principale del presepio è innegabile che la sua ambientazione fu un elemento non secondario fin dalla sua prima realizzazione.
Il presepio, del resto, si può ambientare in qualunque luogo ed in qualunque tempo proprio perché è una rappresentazione, come a teatro si può avere la più variata scenografia o quattro tavole nude.


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Assisi è una città ricca. Pur racchiusa nelle sue mura di pietra rosata, sollevata sulla collina, non è isolata: centro di civiltà mercantile, di commerci e quindi di scambi. Il padre di Francesco è stato in Francia e così ha dato questo nome al figlio. Con le sue belle porte da cui discendere verso la campagna, così la guarda da lontano Francesco, dalle sponde del rivo su cui ha alzato le spoglie celle del Tugurio, per dare esempio di povertà. Per Assisi e per il mondo si è spogliato delle sue vesti e dei suoi averi ma la città e il mondo ancora non vogliono intendere. Allora l’ha presa d’assedio. Da San Damiano, dall’Eremo in alto, e giù dalla Porziuncola e qui dal Tugurio la circonda e la scuote con il clamore della sua povertà e della sua preghiera. Vuole piegarla col suo esempio, con la sua imitazione di Cristo, perché ama questa città come ama il mondo e proprio per questo si contrappone loro.
Bisogna andarci in questi luoghi per capire l’assedio che Francesco con i suoi ha posto ad Assisi e al mondo.


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- Te piace o presepio ?
- No.

Maria ripensa al figlio sempre critico di fronte alle sue fatiche presepiali e alla commedia di Eduardo, dove impietosamente e fatalmente la crisi familiare giunge al suo compimento la vigilia di Natale. Luca Cupiello non sa o non vuole riconoscere i segni del disfacimento che sono intorno a lui. Ripone tutta la sua attenzione nelle piccole cose e nei preparativi della festa, la cena di Natale, dove il capitone volerà fuori dalla finestra, e soprattutto il presepio. Il presepio è dunque anche qui un mondo a parte, un eden atemporale in cui cullarsi e trovare riparo, simbolo degli affetti e, pur nei perenni contrasti quotidiani, di quella pace ed unità familiari che nella realtà stanno per frantumarsi e non sarà possibile rincollarne i pezzi come per il presepio.


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La notte è scesa sulla vallata. Cosa c’è di nuovo che nell’aria è tutto un fermento? I pastori dovrebbero essere stanchi e aver già riposto le pecore negli ovili e invece stanno lì a guardare e non si muovono. Le pecore stesse stanno lì anche loro a guardare, un po’ brucano sempre, e sembrano contente di stare in prima fila e si mettono in posa.
C’è una pastora che è rimasta indietro e sta facendo bere la sua pecora da una ciotola, laggiù al piccolo pozzo che sta davanti al casolare rosa sul fiume.



Di là dal casolare vede scintillare l’acqua del fiume che scende dalle montagne, viene avanti quasi diritta lasciandosi alle spalle un piccolo ponte lontano e curva proprio di fronte ai muri rosati, quindi torna indietro verso il fondo della valle, passa sotto il ponte a gobba d’asino e s’inflette ancora a destra in un’ampia ansa misteriosa. Le sembra che tra la macchia folta del bosco e la pietra grigia che riveste l’argine del fiume avanzi un pastore che conosce con una pecora sulle spalle. L’aspetterà e farà la strada con lui perché di colpo ha paura: ha visto scintillare la lama di una spada, forse un soldato romano, tra i cespugli che invadono i muri della villa abbandonata poco distante proprio sotto la città.



Insieme basterà arrivare più avanti al ponte rustico che porta alla torre solitaria per sentirsi più sicuri, rincuorati dalle luci di case sparse, e arrivare in breve alla vecchia capanna dove dice che sia accaduto qualcosa. Faranno attenzione al cammino sull’argine incerto, non più lastricato del fiume, ricco di erbe selvagge, ciottoli sporgenti, fiori seccati e bacche brune, per non cadere in quell’acqua trasparente che a volte quando passa da sola le sembra voglia tirarla giù.

Alla capanna è nato un bambino. E’ questa la notizia. La madre era in viaggio ed è stata colta dalle doglie. Ha trovato una sistemazione nella capanna che ha una stalla annessa e ci sono un bue e un asino che rendono caldo l’ambiente. L’inverno è arrivato nella vallata ma questo bimbo che ha voluto nascere qui potrebbe essere il segno dell’avvio di una rinascita. Per Ieli, per la pastora, la donna con le brocche, perfino per la vecchia con la conocchia nella torre solitaria e per la città grassa chiusa nella cerchia delle sue mura.

sabato 13 dicembre 2008

Appunti da...ricordare


Senza memoria non c’è identità. Il triste caso di chi, per incidente o malattia, si ritrovi con problemi d’amnesia e di relazioni spazio temporali, a non riconoscere più se stesso e a continuamente chiedersi chi è e dove si trova. Strettamente connessa risulta la capacità d’immaginare il futuro. Chi non ricordare le esperienze precedenti non riesce ad immaginare cosa potrebbe fare le prossime vacanze ad esempio, figuriamoci poi pensare un cambiamento di vita.
Possiamo estendere queste considerazioni dall’individuo alla collettività, un popolo, una nazione, noi italiani in particolare che abbiamo notoriamente problemi d’identità nazionale, perché siamo arrivati moolto più tardi della maggior parte degli altri europei all’unità nazionale, per il regionalismo che ci contraddistingue, etc. etc., motivi che a loro volta hanno cause più a monte che risiedono nella nostra storia e nella nostra geografia. Dal punto di vista del ricordare il nostro difetto d’identità può riconnettersi a scarsa memoria collettiva, storica per l’appunto.
Il processo di globalizzazione in atto nel pianeta non aiuta a sostenere l’identità dei singoli popoli. Dal punto di vista del ricordare l’indebolimento dell’identità a sua volta non aiuta la capacità di progettare il futuro, e questo è proprio quello che oggi nel mondo e nel nostro Paese più si denuncia. Nel new world del mondo globale e multietnico la via della comunicazione e dell’integrazione non può essere dunque la rinuncia all’ identità, all’appartenenza, ma deve partire da essa perché in sostanza non possiamo farne a meno: pena di vivere confinati nel presente, di rinunciare al futuro o comunque di rassegnarci ad una percezione spazio temporale confusa.

Marcel Proust e dintorni. Il nostro ricordare è unico, gli stessi eventi sono ricordati in maniera diversa da differenti persone. Quest’unicità avvicina il nostro ricordare ad un’opera d’arte, in quanto attività creatrice della nostra coscienza, della nostra individualità.

Il lato oscuro del ricordare. Barnaby Rudge. Nel romanzo di Dickens abbiamo colto come Barnaby è felice perché non ricorda, circondato da personaggi che non riescono a superare odi e rancori, che non dimenticano. Aggiungiamo però che lo stesso Barnaby nel momento per lui più drammatico, quando è chiuso in cella riesce a trovare consolazione, proprio lui che non ricorda, attraverso un frammento di ricordo, nella sua preghiera mal ricordata e nel frammento dell’inno infantile che cantò e lo cullò nel sonno.

“Il posto delle fragole” di Igmar Bergman. Un vecchio professore sta per ricevere il premio più importante con cui chiudere la sua carriera di scienziato. Il viaggio verso la premiazione è anche un viaggio dentro se stesso per vagliare, fare il bilancio delle sue relazioni umane, che sembra risultare molto meno brillante. Questo viaggio è un ricordare. Ricordi amari, opprimenti e ricordi piacevoli, ancora vitali, come il posto delle fragole. C’è un ricordo che il vecchio sceglie per addormentarsi, con cui affrontare la notte della vita, preso dall’Eden dell’infanzia, un’immagine serena dei genitori. E’ importante questo scegliere, la selezione del ricordo.

Giacomo Leopardi, o come grato occorre il rimembrar delle passate cose ancor che tristi e che l’affanno duri. Il pensiero più spinto sull’efficacia lenitiva del ricordare, nostro conforto al di sopra delle nostre disgrazie. Perché accade questo? Perché il ricordare è la nostra rielaborazione dell’esistenza, la nostra intima riappropriazione del mondo che abbiamo vissuto, è nostro. Leopardi già sottintende Proust, e l’intensità del ricordare del vecchio professore di Bergman.

martedì 2 dicembre 2008

A-mici due
















Di lui rischio di parlare troppo e non voglio, sono cose nostre. Dopo anni di convivenza, amore e odio. Presuntuoso, aggressivo, simulatore infido, tenero, paziente. Quantunque viva confinato in un appartamento anche lui va per la sua strada, e segue nell’andare quei tracciati che sa lui, in genere costeggiando i mobili ed evitando di attraversare le piazze degli spazi vuoti. Chissà perché quando hai qualche momento di tensione e lui passa per la casa con la sua andatura calma e dignitosa a vederlo ti rilassi. E’ ciò che mi piace di più di lui, vederlo passare come uno che va per i fatti suoi anche se sta dentro un appartamento. Ha i suoi luoghi preferiti, ma in realtà controlla tutta la casa e a volte come padrona  non sopporto che se sposto qualcosa debba venire a prenderne visione, che tutti i piani orizzontali, letti, divani, poltrone, tavoli e televisione a rotazione nella giornata li consideri suoi. In effetti sulla gestione della casa a volte siamo in aperto contrasto. Ha i suoi gusti. Gli piacciono i miei centri all’uncinetto sopra cui si sistema, ma questo piace anche a me perché lo trovo il migliore dei soprammobili.
Non è mai voluto veramente uscire dall’appartamento dal giorno in cui è arrivato, cucciolo di sei mesi, ed è corso sul balcone inchiodandosi sulla ringhiera. Spessissimo però fa un giretto per le scale del palazzo e lancia i suoi richiami acuti, poi scende giù al portone chiuso e guarda attraverso il vetro.

lunedì 1 dicembre 2008

A-mici



Un gatto sa sempre il fatto suo, o almeno così ti fa credere quando cammina per la sua strada e quanto a questa sia chiaro che un gatto va dove vuole. E’ un perfetto clochard nel senso che si adatta perfettamente al quartiere, la strada, il cantone in cui sceglie di vivere ma nonostante la sua apparente non curanza è un vigile controllore del suo territorio, anche quando dorme. Così, anche se può non sembrare dal suo portamento fiero e dalla sua sincera bellezza,




la sua è una vita dura e piena d’insidie cui non si sottrae proprio per il suo carattere indagatore.
Lui è un gatto cittadino che vive in un bel giardino del centro. Sta sulle sue e non da tanta confidenza. A volte non lo trovi, chissà dove va, altre compare all’improvviso guardingo, come ora che s’è formato un circolo di piccioni che becchettano le briciole. Chissà dove si ripara quando piove e fa freddo. Forse prima era un gatto d’appartamento. Quante battaglie con altri gatti e le ferite e le malattie. Quando un gatto sta male lo dissimula e va a leccarsi le ferite dove nessuno lo può vedere. Cuore impavido, fronteggia il nemico ma quando capisce che la lotta è impari o la battaglia è persa, decide rapidamente di battere in ritirata. Difficilmente torna indietro dalle sue decisioni, quando una scelta è fatta è quella.
Quanti amori ruvidi, tra soffiate, graffi e piccoli morsi dopo lunghe ore perse dietro a quelle gattine come statue di sale e poi via, non c’è tempo per la famiglia!
Eppure gli piace ancora giocare con quel bastoncino che lo studente sulla panchina gli agita davanti. Forse lui sa meglio di noi che la vita può essere ora dura ora leggera e, sebbene ci sia chi dica che i gatti sono sempre interessati, pensa che un po’ d’amicizia anche gratis possa valere la pena.




(continua)

mercoledì 26 novembre 2008

Bell'Italia


La sponda di un laghetto vulcanico dell’Italia Centrale in un pomeriggio d’estate.
E’ inutile aguzzare la vista, è proprio così: non c’è nemmeno un casolare.
La strada principale per arrivarci pur essendo asfaltata non è delle più agevoli e poi ci sono altre strade… - sento ancora gli improperi del guidatore di una normale quattro ruote e della comitiva di quel pomeriggio - probabilmente più antiche, strade bianche e acciottolate, che però ti fanno entrare dentro il paesaggio.
Già l’estate per un verso è la stagione dell’atemporalità, quando per il caldo tutto si ferma e ristagna e una simile visione potrebbe essere ora o duemila anni fa, se non fosse per la nostra intuizione interna a priori con cui Kant s’affaticava a definire il tempo.
Così potrebbero essere etruschi a sbucare dalla macchia, o signori feudali intenti a un’oscura battaglia di cui s’è persa la memoria oppure sopravvive nelle carte rinsecchite di un archivio.
Certo oggi è un oasi che ristora la vista, quando la cementificazione non s’è arrestata, anzi avanza giorno dopo giorno.

mercoledì 19 novembre 2008

Circa i Beni Culturali




Una nuova direzione generale dei musei ai Beni Culturali è stata appena inaugurata con la nomina di Mario Resca. Qualche perplessità è suscitata dal fatto che il neoeletto vanta eccellente curriculum come manager ma non in campo storico artistico. Quindi suo obiettivo dovrà essere il miglioramento dei nostri musei dal punto di vista prettamente organizzativo. Molto probabilmente, però, tra gli storici dell’arte e gli architetti del ministero sarà circolata la voce che il nuovo direttore generale è reduce dalla direzione della Mac Donald con qualche sospiro.
Siamo il Paese con il più grande patrimonio storico artistico al mondo, ma il ministero che ne se occupa è sempre stato uno dei più “piccoli” per importanza e prestigio e nonostante ciò la scelta di tecnici di chiara fama, che non mancano certo, ai più alti posti di questo ministero continua ad essere disattesa. Insomma l’interesse dei governi per questo settore o è stato inadeguato o, quando si è acceso negli ultimi tempi, è stato soprattutto dal punto di vista della produttività, ma trattandosi del patrimonio storico artistico del nostro Paese sarà bene chiarire che il lato economico, l’immagine e il marketing non possono esserne gli aspetti essenziali.
I beni culturali, e non solo quelli che stanno al chiuso nei musei, istituti e soprintendenze ma anche nei centri storici delle nostre città e borghi, le piazze e i monumenti, le antiche pietre dei ruderi più antichi ancora eretti o giacenti negli scavi archeologi, sono tra le testimonianze tangibili della nostra storia e della nostra identità, una storia che per alcuni lunghi tratti, possiamo dirlo senza retorica, ha illuminato il mondo. C’è stato qualcosa in questa penisola dalla forma buffa che ha consentito a più riprese la rinascita della civiltà, la posizione nel Mediterraneo, il clima e forse soprattutto l’incontro e la separazione tra genti diverse, favorito dalla conformazione geografica, fonte di quell’individualismo che da sempre è stato la nostra forza e la nostra dannazione. Così siamo un Paese in perenne ricerca dell’ identità comune: i beni culturali sono l’archivio delle nostre cose più preziose.
Ma è un patrimonio delicato, perché la più parte è soggetta alle offese del tempo e della dimenticanza e il cui significato nel flusso del quotidiano ha bisogno di essere costantemente ricompreso e rivissuto. Così dalla fine dell’Ottocento, a cominciare d’Adolfo Venturi, gli storici italiani hanno sviluppato nel campo della storia dell’arte una teoria incentrata sui concetti del restauro e della conservazione, e conseguentemente una prassi della tutela che trovava il maggior compimento nella legislazione del Regno del 1939. La Costituzione della Repubblica ha riaffermato la tutela da parte dello Stato con l’art. 9. Vi si legge del patrimonio storico e artistico della Nazione: con quel complemento di specificazione, della Nazione, si sintetizza appunto che questo patrimonio ci unisce, sta nel bagaglio, e più prezioso, della nostra identità.
Da ultimo, nell’età berlusconiana, ai concetti di restauro, conservazione e tutela, sacri per gli storici dell’arte che si sono formati alla scuola di maestri come Cesare Brandi, Giulio Carlo Argan ed altri, s’è aggiunto quello della valorizzazione, termine di passaggio alla dimensione economica, al mercato. La nomina del nuovo direttore generale sembra tutta in questa direzione.
Questa valorizzazione non dovrebbe presiedere alla conservazione e tutela e quindi alla competenza scientifica. L’aspetto economico non può venire prima dell’alto valore civile, educativo, che i nostri beni culturali esercitano sulle nostre coscienze, quando come cittadini andiamo nei nostri musei ed entriamo in conversazione con essi.

giovedì 13 novembre 2008

Day Hospital

Diario di bordo. Annotazioni precedenti: Alla finestra, Un'estate particolare; L'arma del buonumore.





Aspetto il mio turno. Ho incontrato Giovanna, già compagna nel reparto di chirurgia. Lei ha già preso il suo cocktail di farmaci e non vede l’ora che la mandino a casa. Ci ritroviamo sedute nel corridoio con il cappello in testa - perché ormai siamo calve - il suo di panno grigio, il mio di lana colorata a righe, un po’ da rapper e un po’ anni trenta.
- Carino, l’hai fatto tu? – mi dice sua figlia. Giovanna è un bel po’ più grande di me, ha due figlie e i nipoti che sono dei ragazzi.
- Sì, ne ho fatti tanti, anche da casa e per la notte.
- Hum, un vero guardaroba! - . Ci scherziamo un po’.
Dal fondo del corridoio c’è una ragazza che avanza ma cammina male. Ha i jeans celesti, i capelli biondi tagliati sopra le spalle e uno zucchetto di lana sulla testa. E’ un’immagine chiara. Quando ci passa davanti mi accorgo che dei lacrimoni le cascano giù e le bagnano le mani.
- Quando tocca ai giovani… - borbotta Giovanna. Poi riusciamo a restare zitte per un pochino. Ci sono i genitori che l’accompagnano ma sono muti, come impotenti ed impietriti. Lei in questo momento è sola col suo dolore. Ripenso a quello che ho scritto e un’arma spuntata mi appare quella del buonumore. Qualcosa di superiore deve venire a sollevare l’anima che soffre.
Giovanna se n’è andata. Ora sto nella poltrona con il mio cocktail pronto. E’ venuta a tenermi compagnia mia sorella con una sua amica che abita proprio di fronte all’ospedale, di cui naturalmente sa tutto. Ci sono anche due uomini alle prese con la loro chemio, nell’unica stanza rimasta disponibile. Il signore accanto a me viene da Messina. Il suo male sta nella pelle e dice che è molto raro ed ha girato un po’ per il continente prima che capissero di che si trattava e approdare qui. Le mie accompagnatrici avide di conversazione cominciano a fargli domande sulla Sicilia: il pesce, la cucina, il pane che lo fanno ancora come una volta, e i vecchi mestieri che resistono e i giovani che non trovano lavoro, e il ponte che non si farà perché i lavori in Sicilia si cominciano ma non si finiscono mai ma i soldi sì.
Entra una suora, forse per dare un po’ di conforto ma dice:
- Che è un salotto? – e poi ci benedice.
Fuori sta facendo scuro e il cielo è gonfio di pioggia.
Quando finalmente vado via è una dottoressa che mi congeda. E’ giovane, carina, con i cappelli biondi tirati dietro e gli occhi chiari. Anche lei un’immagine chiara. Ha l’aria stanca, tirata.
Usciamo. C’è un gattone tigrato a pelo lungo con il petto bianco che presiede al lato della scalinata. L’amica di mia sorella sa tutto anche su di lui. La sua padrona abitava in un palazzo proprio di fronte e quando lei se n’è andata il gatto ha attraversato la strada e ora abita qui. Dina, la mia compagna dell’ultimo ricovero, quando la sera non le andava più il prosciutto lo metteva al fresco sul davanzale della finestra e poi la mattina glielo portava.
Piove ormai a dirotto. Ci salutiamo. Resto con mio marito e ci avviamo alla macchina. Mentre partiamo racconta che ha sorpreso la dottoressa che mi ha dimesso nella veranda che piangeva anche lei a dirotto al telefonino. Allora associo la pioggia che cade dal cielo e scivola sui vetri della macchina alle lacrime e penso che quella almeno laverà i marciapiedi sporchi di questa città.

martedì 11 novembre 2008

Potere assoluto: l’anomalia italiana




Abbiamo da poco assistito alle elezioni americane, dove la forma di governo è presidenziale. Potere assoluto spesso si dice per indicare il grado dell’autorità che è consegnata dai cittadini nelle mani del Presidente degli Stati Uniti. Come nel titolo di un film di Clint Eastwood, che ne immagina alcune possibili degenerazioni.
Da noi non è così, o meglio non dovrebbe essere così, perché siamo una repubblica parlamentare. Anzi di parlamenti i padri fondatori della repubblica ne pensarono, per maggior sicurezza, due: la Camera e il Senato. Il nostro Capo del Governo non dovrebbe avere il potere assoluto. Nelle nostre elezioni si vota in primis il rinnovo del Parlamento – una forzatura verso il presidenzialismo nelle ultime elezioni è stata il porre il nome del candidato premier nel simbolo - e delegazioni di tutte le formazioni politiche che hanno guadagnato seggi nel nuovo Parlamento sono consultate dal Capo dello Stato prima che quest’ultimo dia l’incarico per la formazione del nuovo governo. Queste procedure sottolineano che il nuovo Presidente del Consiglio non è eletto direttamente dal popolo ma emana dal nuovo Parlamento. Il Presidente del Consiglio non è il capo assoluto nemmeno del governo ma ne dirige la politica generale, promuove e coordina l’attività dei ministri. Il Parlamento deve sostenere il governo nel senso che la sua maggioranza ne vota la fiducia all’atto dell’insediamento ma svolge pure una funzione di controllo dell’azione governativa con interrogazioni, interpellanze, mozioni, inchieste e commissioni e naturalmente con la revoca della fiducia.
Di fatto, dopo le ultime elezioni il governo in carica si trova in una posizione di forza senza precedenti sia nella prima che nella seconda repubblica per la stragrande maggioranza di cui dispone in entrambe le camere del Parlamento, e il capo del governo in particolare, per la forte “personalità” del premier nella scelta e direzione dei suoi ministri. Ciò è potuto accadere non solo per il voto degli elettori ma anche per la legge elettorale, quella votata alla fine della legislatura 2001- 2006 dal precedente governo Berlusconi. La prima repubblica era andata avanti con il sistema proporzionale. Nella seconda si era avviato un cambiamento con un referendum, del 1993, che aveva promosso un avvio del maggioritario, pur restando il 25% di proporzionale. L’ultima legge elettorale varata per cambiare le regole del gioco pochi mesi prima di andare a votare, e la cui correzione il seguente governo Prodi, che ne ha fatto le spese, si è forse scordato di porre tra i suoi obiettivi iniziali, con il maggioritario rimesso da parte, i premi di maggioranza alle camere, le liste bloccate senza preferenze – per cui in certi collegi si può far eleggere chi si vuole - lo sbarramento al 5% ci ha consegnato un Parlamento povero di voci dove, di fatto, il governo può fare quel che vuole. E’ ricomparso addirittura Licio Gelli ad incitare il governo a fare quello che vuole, con la maggioranza che ha! Di fatto è potere assoluto.
Occorre dunque riflettere che un sistema parlamentare come quello italiano può essere mortificato nella sua essenza dinamica da una legge elettorale incongrua.
In un sistema che si dice parlamentare, nella scelta, seria, tra maggioritario e proporzionale, la funzione viva del Parlamento non deve mai venir meno.
Ci resta la pubblica opinione. Per esprimere critica e dissenso in maniera efficace. Oggi è il programma del governo sulla scuola a raccogliere un non gradimento trasversale degli italiani. La gente che non si lascia imbrigliare dalla politica spettacolo dei talk show sta attenta alla qualità della vita che le si prepara.

martedì 4 novembre 2008

L'arma del buonumore

Diario di bordo
Annotazioni precedenti: Alla finestra, Un’estate particolare.



Il viaggio questa volta è nella malattia. Una malattia sociale per la sua diffusione, il tumore al seno. Capita spesso di leggere sull’argomento, statistiche, linee guida della prevenzione e testimonianze delle donne che questo viaggio si sono trovate ad intraprendere. Il termine più usato è quello di lotta, e ad esso si associa spesso l’immagine delle amazzoni, anche per via della mutilazione più o meno estesa che dobbiamo subire. Personalmente quest’idea di donne guerriere, proprio ora che sto dentro la chemio, con i suoi attacchi di nausea e stanchezza, non mi aiuta. Forse dopo, quando si riprende la vita normale: ho letto di donne che poi hanno intrapreso una vita molto più attiva di prima, specie scegliendo uno sport da praticare. In questi giorni stanchi invece c’è un’arma leggera a portata di mano ed è un po’ di buonumore. Scoprirsi allegre nonostante tutto, contente di quel che possiamo fare nelle nostre giornate.

mercoledì 29 ottobre 2008

Un anno di Piccola Dorrit Blog

Cari lettori… c’era una volta…c’è nessuno? Può essere che il più delle volte parliamo da soli e allora? Intanto scriviamo, che è un po’ diverso.
Un grazie a chi ci legge e perfino ci commenta o magari ci commenterà.



E’ un impegno, divertente, quasi una passione. Possiamo scrivere di quello che vogliamo. A volte di getto, senza quasi rileggere. A volte faticando un po’ per tirare fuori quello che sentiamo di avere dentro.

sabato 25 ottobre 2008

La scuola


Ricordate il referendum sulla Costituzione? La risposta fu trasversale: ci sono cose in cui il Paese, in molti modi diviso, si ricompatta. Dentro quel referendum, c’era in particolare anche la risposta a quei cambiamenti che si voleva apportare alla scuola italiana. Ecco che oggi, dopo molti mesi di consenso, di sondaggi inebrianti, questo governo registra la sua prima difficoltà, un’opposizione forte che muove dalla gente, proprio sul terreno della scuola. Anche questa volta una risposta trasversale. Ebbene, al di là dei temi, propri del governo, della paura e della sicurezza, ma anche oltre le questioni prettamente economiche, con le contraddittorie affermazioni d’esaltazione del liberismo spinto di un passato recente e l’attuale delineazione di uno stato assistenzialista di banche e imprese, ma giammai delle famiglie e dei cittadini più in difficoltà, ebbene un dissenso, l’opposizione, non riusciva a trovare uno sbocco di protesta finchè non ci si è legati al tema della scuola - dove pure comunque la questione economica è fondamentale -.
Dunque nella scuola, nei valori che ad essa attribuiamo, noi italiani sappiamo alla fine riconoscerci come Paese, e questo non è poco. Dentro la scuola non c’è solo il valore del futuro per i giovani, ma evidentemente anche i valori civili, in ultimo la solidarietà e la fratellanza, senza cui alla fine una società si sgretola.

martedì 21 ottobre 2008

Un'estate particolare

La finestra da cui guardavo i tre palazzi, parallelepipedi, e il cielo, era quella della stanza in cui ho soggiornato nell’ultimo ricovero in ospedale dove ho fatto la mia prima chemio: è stata un’estate particolare marcata dagli interventi chirurgici per recidere il fiore nero di un nodulo al seno, con un nome dolce, neoplasia, e uno duro, carcinoma. Sarà ancora un tempo particolare, in cui sperimentare quel percorso ad ostacoli della terapia che deve seguire.
La paura iniziale, forte, aggressiva, è stata come un vaccino: non è che si diventi coraggiose, è solo che varcata la soglia invisibile, nel mondo parallelo della malattia, cerchiamo di affrontarla dando il nostro meglio e con quella naturalezza che sta dalla parte delle donne. Così mi è sembrato di scoprire anche nelle altre che ho fin qui ho incontrato e dedico loro questa mia pagina: in particolare a Giovanna, Maria Luisa, Lucilla, Manuela, Vincenzina,Elvira, Dina e Luciana. Di altre non ricordo il nome, o sono stati brevi incontri nei corridoi, alle macchine degli snack, perfino su nelle sale operatorie, mentre aspettavamo ormai sveglie di tornare giù. Sempre con la richiesta reciproca di un piccolo aiuto, una cortesia mai negata, la solidarietà che non è una favola, per fortuna esiste davvero. Ricordo con piacere le brevi chiacchierate che ci facevamo, attaccate alla flebo, quando restavamo sole nella stanza, in due o in tre, come collegiali o vecchie amiche che si ritrovano. E senza differenze d’età, dai novanta ai venti, purtroppo! Solo una, devo dire, ho trovato veramente scorbutica, ma aveva sia dietro che davanti sé un percorso d’interventi particolarmente pesante.
Più complesso il rapporto fuori dall’ospedale, dove il nostro ritrovarsi nella condizione di malati, ci fa confrontare continuamente con i sani intorno a noi. Per esempio, a noi non dispiace parlare di quello che ci sta accadendo, invece registriamo che gli altri non ne parlerebbero, vorrebbero evitare, per distrarci forse. Ma non vogliamo essere blanditi.

mercoledì 8 ottobre 2008

Alla finestra

Tre grossi palazzi. Tre parallelepipedi, movimentati dalle protuberanze e inserzioni di terrazzi e finestre, presiedono lo spazio di là dal vetro, alla finestra.
Arnie, contenitori di vite umane. Gli spioventi dei tetti, coperti di moderni rivestimenti, atti a blandire l’inserimento di appartamenti nel loro volume, hanno colori, dal grigio ardesia profilato di blu, al verde e al rosso, com’è nel quarto parallelepipedo, che si scorge più indietro in retroguardia, che esibiscono sfumature diverse col variare delle ore del giorno; addolciscono così la presenza tozza e invadente dei parallelepipedi, la loro sfibrante staticità, mostruose sentinelle a questa finestra di terzo piano, che taglia loro i piani inferiori, come agli alberi i loro tronchi, così che le cime rigonfie dei pini sembrano cespugli.
Il cielo, in compenso, la fa da padrone: con la sua leggerezza riesce a dominare la pesantezza delle sagome di cemento, avamposti della giungla cittadina incombente, e la plasticità morbida delle chiome degli alberi, illusione consapevole di giardini perduti. L’immagine è dunque contraddittoria, per questo nonostante tutto affascina, sembra contenere un mistero che sfugge alla presa.
Passano le ore, cambia la luce e nuvole vanno e vengono. Luce e nuvole, materiali impalpabili, o al confine della materia qual è la luce, sono gli attori della rappresentazione sempre diversa che la finestra offre; allora i parallelepipedi da sagome di cemento diventano di cartone. Dalle arnie brulicanti, dal quotidiano che ci tiranneggia, e c’irretisce, con le sue necessità e incombenze sempre uguali, lo stesso che satura la stanza alla cui finestra abbiamo trovato il tempo per sostare, siamo richiamati ad un mondo etero e silente di luce e colori e forme vaghe e continuamente trasformantisi.

giovedì 18 settembre 2008

Lo scialo (ritornare al futuro)



Il ritorno dei grembiulini a scuola e delle case chiuse sono segnali, da punti dislocati della società, di una volontà di un ritorno al passato. Almeno a prima del Sessantotto, magari agli anni Cinquanta. Ha un senso rispetto alla nostra storia e rispetto al resto del mondo? O non sarebbe più auspicabile un ritorno al futuro? A pensare con energie nuove, ingegno e fantasia, che si diceva un tempo doti particolari degli italiani, a soluzioni nuove e più adeguate ai problemi del paese, e dell’umanità in generale, già che siamo nell’anno 2008? Un fastidioso odore di stantio percorre a folate l’aria ormai autunnale.
Ripercorriamo un po’ la strada che ci ha portato sin qui dal secondo dopoguerra. C’è stata la Repubblica e la ricostruzione con la spinta ad adeguare il paese alla nuova modernità con, esempio importante, la scuola popolare e i corsi serali per i – troppi- giovani e adulti che nel nostro Paese erano cresciuti analfabeti senza istruzione. Poi c’è stato il boom degli anni sessanta uno sviluppo per alcuni aspetti distorto, come quello della speculazione edilizia, ma che ha comunque portato il Paese fuori dalla sua arretratezza e ad entrare nella comunità internazionale dei Paesi del Welfare, cioè nella società del benessere. Da un punto di vista politico, però, con l’istaurarsi della guerra fredda, proprio nei primissimi anni Sessanta, l’Italia, con il più grosso partito comunista europeo e la sua posizione importante nel Mediterraneo, è rimasta come divisa in due, tirata tra i due blocchi, cristallizzata nelle opposte ideologie e bloccata nella libera evoluzione della sua politica interna. Il terrorismo, strategie della tensione, corruzione sempre più elevata dei politici al governo, ad un certo punto perfino ostentata, sono state conseguenze del Paese bloccato.
Ad un certo punto però la guerra fredda è finita. Il muro di Berlino è crollato nel 1989. Circa vent’anni. Con quel muro sono finiti di crollare da noi i vecchi partiti. Sarebbe nata la nuova Repubblica ma qualcosa s’è inceppato, non solo per le crisi economiche ricorrenti che scrollano il sistema del Welfare. Ci saremmo aspettati finalmente una più effettiva libertà e crescita democratica, il superamento graduale delle molte anomalie del nostro Paese. Invece sta infine prendendo piede un a lungo covato ritorno al passato, che tra l’altro maschera di bonomia paternalistica, scelte che di fatto favoriscono ancora una volta i ricchi rispetto ai poveri, proprio quando una grave crisi economica internazionale è in atto.
In questi ultimi vent’anni, invece di migliorare, occorre riconoscere che il Paese è diventato meno efficiente. Com’è stato possibilire scialare così l’Alitalia? Che oggi per dire che le cose vanno male si dice che si sta peggio dell’Alitalia? Quando una volta chi entrava a lavorare in quest’azienda era considerato un benedetto dalla sorte, e voleva dire prestigio ed un certo livello di stato sociale ed eleganza? E quanto ancora è stato scialato in Italia? Per risolverlo con un ritorno al passato?
E’ vero che senza memoria non c’è identità ma è anche vero che in certo qual modo abbiamo bisogno di dimenticare, per non essere oppressi dal passato e anche per essere felici ! – si veda il mio post precedente su Barnaby Rudge –
Il cambiamento, change, le idee nuove e innovative sono la spinta dell’umanità, il saper e poter cambiare fa parte della libertà, vivifica e rende interessante questo nostro altrimenti vecchio e noioso mondo.

venerdì 29 agosto 2008

Roberto Baggio


Dal particolare all'universale.


E’ stato proprio per quel rigore scalciato contro il cielo. Per me il mito è cominciato a Pasadena.
L’eroe che cade e fallisce l’impresa, insomma quella roba lì. Prima, molto prima, c’era stato Sivori, con i calzettoni scesi alle caviglie, poi Mario Corso, con la grande Inter, e gli stessi calzettoni alle caviglie. Mi sono fermata a Baggio. L’ho seguito pure nel Brescia e ne valeva la pena: che gol fantastici fino all’ultimo minuto! Eppure è stata dura, per tutte le polemiche ogni volta che c’era la Nazionale, con l’ultima, tremenda, esclusione da parte del Trap: anche noi fans soffriamo. Non abbiamo dimenticato il suo coraggio nel tornare così presto in campo dopo l’ultimo tremendo incidente, proprio per essere convocato.
E. Berselli su Repupplica diceva della solitudine dei numeri dieci, parafrasando un romanzo molto premiato. Sarà, ma ci sono dei numeri dieci che compensano la solitudine, e a volte l’ostracismo del gruppo, con una popolarità immensa. Sono tra gli eroi dello spirito popolare. Baggio è senz’altro tra i più amati. Dal Brasile – dove lo adorano proprio per quel rigore sbagliato- alla Cina e al Giappone, passando per l’Africa. Anche da questo punto di vista si tratta del passaggio magico dal particolare all’universale: il genio di per sé inspiegabile che si dà alla comprensione di tutti. Il calcio è terreno d’elezione per questo passaggio, quasi mistico: a pallone si gioca sotto casa e può cominciare così la favola di chi diventa un campione.
E’ stato, il calcio, uno sport popolare. E’ stato, perché ormai è diventato sempre più spettacolo televisivo. I suoi protagonisti qui da noi avevano spesso facce un po’ rozze, contadine e parlavano un linguaggio molto semplice, perché a scuola c’erano andati poco e malvolentieri, perché la loro passione era la strada e giocare a pallone. Ma così è cominciata ancora la storia di Roberto, come l’ha raccontata una volta proprio alla televisione. A Baggio andare a scuola gli piaceva poco e con i compagni presero una rara e per questo memorabile sospensione nella scuola media di Caldogno, dove non succedeva mai niente. Quello che più gli interessava era il gioco del calcio, che per lui, Baggio, è stato una passione. C’era in quell’occasione, anche un un giovanissimo calciatore del Brescia che raccontava delle emozioni provate durante certi momenti di certe partite. Ecco dove può battere ancora forte il cuore del calcio, dove può ancora cominciare la favola: dai ragazzini, calati nel loro particolare, il paese o il quartiere, che si affidano al loro talento ”pedatorio” per provare ad interpretare, con il calcio, il gioco della vita, l’universale: le partite, divengono le battaglie con le vittorie e le sconfitte, l’amicizia e la rivalità e tutte quelle cose, che, se si ama il calcio, ognuno vi può trovare dentro rappresentate.
Ed oggi? Quegli armadi bianchi chiusi a chiave con le maglie conservate, di cui ci da notizia I. Zazzaroni ci danno da pensare: qualche porta andrà aperta, qualche soluzione bisognerà trovarla perché la nostalgia è tanta.

giovedì 7 agosto 2008

Di Barnaby Rudge e del ricordare

Il romanzo è ambientato all’epoca dei disordini anticattolici nella Londra del 1780.
Barnaby è più volte indicato nel romanzo da diversi personaggi come un’idiota. La madre, posta di fronte alla diversità del figlio, ricorda i piccoli stratagemmi escogitati, quando era bambino, per metterlo alla prova, i piccoli segni “non di stupidità, ma di qualcosa di infinitamente peggio, così fantomatici e poco infantili com’erano”; “ le strane immaginazioni che egli aveva; il terrore di certe cose inanimate, oggetti familiari che egli dotava di vita”. In effetti Barnaby sembra vivere in un altro mondo. Appena lo incontriamo ci parla delle stelle come occhi che guardano le cose degli uomini, anche uomini buoni feriti, limitandosi a sfavillare e ad ammiccare tutta la notte. Lo ritroviamo che parla della sua ombra, di come le nostre ombre giochino e si burlino di noi. Barnaby, capace di passare ore davanti al fuoco, “ad osservare le immagini nei carboni ardenti: i fiumi, le colline e le valli nel rosso scuro del tramonto, e visi selvaggi”. Barnaby, dall’alba al tramonto a correre sfrenatamente per le campagne, tuffarsi a riposare nell’erba: “C’erano uccelli da vigilare, pesci, formiche, vermi, lepri e conigli, mentre attraversavano il lontano sentiero nel bosco e così scomparivano: milioni di esseri viventi a cui interessarsi e da osservare rimanendo distesi, e per i quali, quando erano scomparsi, c’era da battere le mani.” Barnaby vive in un mondo animato, come uno spiritello shakespeariano, vive nell’armonia della natura. Amico dei cani vagabondi e di un corvo parlante di nome Grip.
C’è un altro tratto di Barnaby che è essenziale: il suo non ricordare. La madre sfrutta questo carattere del figlio, ormai ventiduenne, per trattenerlo in casa: “i racconti che ella gli ripeteva come un allettamento per tenerlo sempre vicino a sé. Non riusciva a ricordare queste piccole narrazioni – il racconto di ieri era nuovo l’indomani – ma gli piacevano sul momento; e quando ne aveva voglia rimaneva pazientemente in casa, ad ascoltare le storie come un bambino e a lavorare allegro”. Barnaby ricorda solo poche cose essenziali e siccome Barnaby è spesso felice, tendiamo a pensare che alla base del suo essere felice vi sia proprio il suo non ricordare: “Quella sua debolezza di mente che lo rendeva così rapidamente dimentico del passato, salvo in brevi barlumi e lampi, pure, adesso era un conforto. Il mondo per lui era pieno di felicità; per ogni albero, pianta e fiore, per ogni uccello e bestia, per ogni piccolo insetto che un alito di vento estivo facesse cadere a terra, egli era felice.”. Quando Barnaby viene risucchiato nel gorgo dei disordini, e ne diventerà protagonista, di lui è detto rispetto alla moltitudine insorta: “camminava orgoglioso e felice, fiero oltre ogni dire; la sola creatura gioconda e schietta nell’intera riunione.” Questo suo non fermare i ricordi predispone Barnaby a cogliere gli istanti della felicità, gli attimi fuggenti; perfino quando è rinchiuso in prigione Barnaby accede ad un sentimento superiore, grazie ad un raggio di luna che penetra nella cella attraverso l’inferriata: “e sentì la pace entrargli profonda nel cuore. Lui, un povero idiota, chiuso nella piccola cella, era innalzato verso Dio, mentre contemplava la dolce luce, quanto l’uomo più libero e più fortunato in tutta la vasta città; e nella sua preghiera mal ricordata e nel frammento dell’inno infantile che cantò e lo cullò nel sonno, aleggiava uno spirito di verità quale mai fu espresso da omelie studiate con cura, né mai echeggiò sotto gli archi di vecchia cattedrale”. Barnaby, eroe dello spirito popolare!
Attorno a Barnaby, che non ricorda, gira una moltitudine di personaggi che invece non riesce ad uscire dal proprio passato, è ancorata ad eventi trascorsi, scolpiti nella memoria, a cominciare dall’assassino incapace di distaccarsi dal luogo del delitto ma altrettanto incapace a mondarsi della colpa. Il ricordare che genera paura, ansia, rancore e sete di vendetta, tutti sentimenti negativi che impediscono, o rallentano, un’evoluzione positiva e la risoluzione dei conflitti. C’è, dunque, una dimensione negativa del ricordare. Opposta all’elegia e alla poetica creativa del ricordare di proustiana accezione. Un po’ come nel cinema di Sergio Leone, dove i flash back, servono, appunto, ad illuminare questa quarta dimensione: il lato oscuro del ricordare. Un lento movimento che alla fine fa venire a galla non solo i pesi degli altri ma, fardelli più duri, i nostri stessi.

domenica 13 luglio 2008

Piazza Navona




Chi teme la piazza. Le élites – le oligarchie – temono e in fondo disprezzano le piazze. Dove si affolla la gente, sconosciuta, spesso volgare.
Dalle colonne di un giornale sostanzialmente oligarchico, Ezio Mauro da un lato riconosceva il merito dei cittadini, appunto, “sconosciuti" (però!) che “hanno voluto riconnettersi al discorso pubblico in un momento delicato”, dall’altro stigmatizzava l’esito appunto volgare della manifestazione impressale da chi la conduceva dal palco. Il borghese attuale evidentemente continua ad essere afflitto dal complesso della volgarità. Nel mondo oligarchico borghese, del resto, essere sconosciuti è un po’ come il peccato originale e nelle oligarchie borghesi tutti sono noti tra loro, o attraverso loro amici. Il cittadino sconosciuto è come tale, oserei dire, quasi certamente inferiore. Perché se avesse meriti sarebbe diventato noto per essi. L’élite borghese, infatti, ancora si nutre dell’idea di progresso e che, a conti fatti, questo non possa che essere il migliore dei mondi possibili - in particolare che questo mondo capitalistico sia il migliore dei mondi possibili -. Corollario di questa visione del mondo è che i migliori non possono che emergere e … confluire nelle élites, naturalmente! In genere gli oligarchi, per l’appunto, non fanno che parlare di percorsi d’eccellenza che selezionino i migliori.
Così tutto ciò che viene dall’iniziativa, l’intuizione, della gente, dello spirito popolare, è perciò guardato con sospetto e criticato dagli oligarchi, anche perché sfugge al loro controllo.
Peccato che i grembiulini dei girotondini si siano sporcati nel cadere “tutti giù per terra” come, per la verità, comanda la filastrocca. Altro che sfacelo di Piazza Navona. Altro chè.

sabato 5 luglio 2008

Appendice

Seguito del racconto di Cristina iniziato nel parco dei mostri di Bomarzo.

La sala destinata alla riunione era bianca come il suo arredamento. I convenuti discutevano tra loro in piccoli gruppi. Solo i grandi saggi di Kronos, con le loro bianche zanne ricurve e la proboscide nervosa avevano già occupato il loro posto. La delegazione terrestre, tutta di sesso maschile, sembrava intrattenersi piacevolmente con le rappresentanti femminili di Syrenoid. I grandi insetti e ragni della galassia di Artropoidea stavano un po’ isolati dal resto come sempre, eppure – pensò Thefarie Velianas – il loro modello di sviluppo restava tra i migliori dell’universo.
Il presidente della conferenza intergalattica universale battè il grande martello, un colpo che parve a qualcuno dei partecipanti assordante, come si fosse aperta la porta dell’al di là: così risultò quel colpo alle orecchie terrestri, mentre sembrò essere appena avvertito dagli altri. Ottaviano G. Kennedy, capodelegazione della Terra, ancora non aveva ben compreso lo scopo di quella convocazione straordinaria.
Fu data la parola al grande Mammut di Kronos, Elepharamesse, colui il cui sguardo più di chiunque altro nell’universo sapeva inoltrarsi nel passato e prevedere il futuro. Elepharamesse controllava quotidianamente i dati che giungevano a lui da tutte le galassie e da tutti i pianeti. Nell’ultimo mese galattico i dati provenienti dalla Terra lo avevano impensierito. Si era posto a studiare il caso e la preoccupazione si era trasformato in un allarme che aveva i caratteri dell’urgenza: la terra aveva i giorni galattici contati.
Il sorriso sulla faccia di Ottaviano G. Kennedy, andava spegnendosi: era vero che avevano in quel momento qualche problema energetico e di smaltimento dei rifiuti, come altre volte in passato, ma a loro sulla Terra non era sembrato così catastrofico, tanto da convocare il Consiglio Intergalattico! Sentì che lo sguardo scettico dell’assemblea era puntato su di lui, ed un brusio si sollevava. Elepharamesse si pose ad illustrare lo stato della Terra, mentre il presidente Thefarie Velianas accarezzava il manico del suo poderoso martello. I terrestri pregarono di non doverlo riascoltare.
La soluzione Asimov, dal nome del suo geniale inventore, si era rivelata ottima per appena trecento anni terrestri. Gli uomini avevano abbandonato la crosta terrestre, il loro cielo azzurro e le nuvole che erano state bianche, ed erano andati ad abitare nel sottosuolo. Un’unica enorme città sotterranea, stipata al massimo, e forme di vita comunitarie avevano consentito un enorme risparmio energetico ed un apparente ottimale riciclaggio dei rifiuti. Intanto però la superficie della terra si era riempita d’inceneritori. Il sistema stava collassando, qualcosa non aveva funzionato: i terrestri umani molto probabilmente avevano continuato a consumare troppo.
Non restava altro da fare, secondo Elepharamesse, che abbandonare il pianeta. Approntare in breve tempo una grande flotta spaziale su cui evacuare le specie viventi sulla Terra. Un grande viaggio, un destino migratorio improrogabile era nel futuro dei terrestri. L’assemblea discusse e approvò.
Smarrito, Ottaviano G. Kennedy che sulla Terra leggeva qualche volta un libro tramandatosi dai tempi più antichi, si scoprì a pensare stranamente ad un’arca di legno.
Il vice capo della delegazione terrestre si chiamava Ulisse Joyce. Era rimasto meno abbattuto dei suoi compagni alla grave notizia. Guardò con rinnovato interesse verso il banco, o meglio la piscina, dove erano adagiate le ragazze di Syrenoid. In fondo – pensò – anche sulla Terra la vita era cominciata dall’acqua.

Pyrgi. Dove il viaggio si conclude.

Pyrgi era stato il porto e l’emporium di Cere. Sviluppatosi come luogo di culto con due templi, l’uno dedicato ad Astarte-Uni – qui sono state trovate le lamine d’oro con iscrizioni in lingua etrusca e fenicia - con le prostitute sacre, donne che volevano farsi una dote, secondo un costume molto orientale. Alcune parti di questi templi che furono recuperati negli scavi sono a Villa Giulia: le decorazioni fittili che illustrano il racconto mitologico dei “Sette contro Tebe” hanno la stessa forza prepotente dell’Apollo di Veio. Il santuario di Pyrgi era ricchissimo per gli ex voto che accoglieva, segno della ricchezza dei commerci di Cere. Venne saccheggiato dai Siracusani nel nel 384 e rimase l’eco nel mondo antico del gran bottino che se ne ricavò.
Nel piccolo antiquarium c’è poco da vedere. Poi, però, in piccola processione, i visitatori s’incamminano dietro la guida a vedere il luogo dei basamenti di questi templi e siccome è proprio vicino al mare che è azzurro perché è una splendida giornata, allora diventa proprio un’altra cosa. Pensare l’affollamento dei tempi etruschi ed ora vedere la grande distesa del mare, la verde macchia mediterranea e di ciò che era Pyrgi solo i piatti rettangoli disegnati nella terra dalle pietre dei basamenti dei templi scavati. La guida indica un poco più indietro, verso l’Aurelia, un’altra linea, quella dove passava la strada etrusca.
Ora Cristina e Daniele guardano il mare dall’alto del Castello di Santa Severa. Hanno telefonato ai ragazzi che tra poco torneranno a casa. C’è una barchetta all’orizzonte che fa su e giù, un po’ si vede, un po’ sparisce, traballando come in un vecchio film, manca solo la dissolvenza in nero, il cerchio che la inghiotta.

Fine

Gli asfodeli di Cere

Presero la strada fiancheggiata da pini e cipressi che conduceva alla necropoli monumentale che già era il tramonto. Si erano attardati nell’attuale Cerveteri, dopo la visita al museo a mangiare pizza e dolci etruschi come diceva la scritta sopra l’entrata della pasticceria. Il più etrusco di questi dolci, fatto di due biscottini uniti da un velo di marmellata con due ampollosità da una parte e dall’altra una punta ricoperta di cioccolato, ricordava quelle pietre davanti alle tombe su cui si era volentieri soffermato Lawrence. Simboli fallici di divinità maschili preposte a sorvegliare l’entrata. Che forse un tempo svettavano anche sulle sommità dei tumuli. Le tombe femminili invece erano indicate da cippi a forma di casa con il tetto a duplice spiovente. La donna dunque rappresentata dalla casa, ma la casa del principe nel mondo etrusco più antico era anche il centro politico e religioso.
Cristina ricordava cosa c’era scritto sul manuale di Massimo Pallottino. Se Veio era scomparsa, Cerveteri era l’immiserito erede dell’antica metropoli:

“un centro che era stato eccezionalmente ricco e popoloso, forse uno dei più splendidi del mondo allora conosciuto.”.

Il museo di Cerveteri non è grande, le cose più importanti provenienti da Cere si trovano sparse per i musei del mondo. Daniele e Cristina lo visitarono quasi in solitudine, trovatisi a capitare tra truppe di studenti e di turisti stranieri che passavano come meteore tra i due lunghi saloni dei due piani che lo compongono. L’ultima truppa fu implacabilmente arrestata alla biglietteria, che chiudevano un’ora prima, per un quarto d’ora di ritardo. Così per un quarto d’ora quegli stranieri non videro le anfore biconiche, il cratere con la coppia di figure, cavalli ed altri animali, considerato all’origine della grande produzione di vasi locale. Ignorarono i sandali incernierati - là dove il piede s’inarcua - forse unici al mondo, che solo gli etruschi, come nessun altro popolo lavoratore di metalli, poterono concepire. Non poterono vedere, per un quarto d’ora di ritardo, la gorgoneion di bronzo, ritrovata in una discarica etruscoromana. Quest’immagine, circondata fittamente nel suo contorno da teste piccolissime di serpenti, gli occhi d’avorio, ricorre sempre uguale a se stessa nei vasi, nelle pitture, negli oggetti di bronzo, come un famoso candelabro di Cortona. Racchiudeva molto probabilmente una simbologia cosmica.
Usciti dal museo, percorsa Ceveteri nella sua lunghezza, videro di là dal fosso sul pianoro opposto, una processione di pini e cipressi che indicava la via alla necropoli, anche se ancora non lo sapevano, si chiedevano dove portasse, e avrebbero dovuto dedurlo: a Cere - e molto probabilmente ogni qual volta la disposizione delle alture lo favoriva - la città dei morti affrontava la città dei vivi, quasi vi gareggiasse, entrambe allungate sugli opposti pianori tufacei separati dal fosso inciso nel tufo. Per raggiungerla occorreva uscire dalla città dal suo lato corto, passare sotto gli ultimi bastioni smozzicati, trassennati e quasi inghiotti dalle case costruitegli addosso, e risalire subito a destra. Invece sbagliarono e presero la strada del Sasso, in una conca ridente tra il mare, una linea d’azzurro, e i monti della Tolfa, masse compatte, verde bruno raggruppate contro il cielo. Ricca di coltivazioni, come pure doveva essere ai tempi degli etruschi, ma anche di ville e villette.
Quando finalmente scesero dall’automobile, circondati dai tumuli, ancora una volta ebbero l’impressione forte di trovarsi in un altro mondo.
- Si sente l’odore della campagna – disse Daniele.
Tutto intorno era il verde d’aprile e sopra di esso si alzavano alte le spighe dei pallidi asfodeli, in piena fioritura. Le sommità dei tumuli ne erano piene. Dalla parte del mare un sole rosso si apprestava ad uno dei migliori, rinomati tramonti tirrenici. Se la volta celeste era un fragoroso contrasto di colori, i “fiori dei morti” erano uno spettacolo molto meno assordante ma, in tono minore, un canto altrettanto magnifico.
Daniele si concentrò sul tramonto, finchè il sole scomparve; Cristina sugli asfodeli spiando le le nere imboccature di porte e finestre, delle abitazioni sepolcrali. Dal pianoro della necropoli era l’odierna Cerveteri che ora si stendeva davanti a loro.
Tante cose avevano visto con i loro occhi e riflettuto nei loro discorsi ma il mistero non si placava.
- La fine degli etruschi, a parte il loro rifluire nella società romana, sembra infine modellarsi nei sarcofagi di terracotta di Tuscania in cui gli artigiani etruschi imprimevano le naturali e vere sembianze del defunto, insomma nel ritratto. Se c’è un percorso che possiamo ricostruire dai banchetti con i corredi di anfore e bicchieri, e le danze, passando per i tristi, anche se su carri principeschi, cortei dei viaggi nell’al di là, un percorso che è un anelito d’eternità per sé stessi e di fronte ai vivi e ai posteri, allora questo percorso, questa pretesa di salvaguardia della propria individualità, sfocia nel ritratto.
- E ti pare poco?

Verso il mare

Ritornarono indietro verso il mare. Passarono rapidamente tra le campagne di Vulci che, se non fosse per la presenza di quel castelletto e del ponte della badia, sembrerebbero proprio senza alcun segno evidente di stanziamento umano, e doversi perciò ridurre a quel

“nulla, nulla”

che Lawrence sentì ripetersi dagli uomini che incontrava, quando chiedeva loro dell’antica città di Vulci, e poi di Cosa e di Vetulonia, più su nella maremma toscana.
Così raggiunsero il mare, dove il fiume Fiora conduce il suo letto melmoso. Sdraiati sulla sabbia respiravano l’aria umida. A Cristina piaceva il profilo di Daniele contro il cielo.
Quanto mistero, quante difficoltà in questo viaggio verso gli etruschi.
E Daniele, quanto ancora misterioso era per lei ? – pensò Cristina - . Qualche domanda sarebbe rimasta senza risposta: “lost”.
Le tornò, le tornava spesso all’orecchio una canzone di Bob Dylan:

Sara: so easy to look so hard to define … mystical wife

Quel senso di mistero, dell’irraggiungibile, più spesso descritto dagli uomini, ma che anche le donne possono provare. Mystical husband! Dopo tanti anni di vita in comune, perché così era, anche se avevano scherzato nell’iniziare questo viaggio nell’Etruria meridionale a fare come se fossero una coppia nuova, il mistero restava. Era qualcosa forse di molto prezioso, da preservare. Le venne in mente che tutte le volte quando si litigava, quando lei provava a metterlo con le spalle al muro, Daniele riusciva sempre a dirle: “Non hai mai capito niente di me”. Le dava molto fastidio, e poi non era vero perché ormai lo conosceva molto bene. Ma in fondo era un’altra cosa, quel mistero più profondo, come Sara. Quello che era sicuro era solo che in quel momento erano vicini. Lei mise la mano nella sua, si abbracciarono. E’ strano ogni volta stupirsi di come il contatto fisico accarezzi l’anima.
Ancora laziale la costa, ancora piatta, e facile all’approdo. Il mare e i mostri marini con le ali, così singolarmente etruschi. In queste raffigurazioni Lawrence ancora una volta aveva riconosciuto simboleggiato l’andare e venire delle forze vitali, il ciclo dell’acqua, i flussi e i riflussi. Sempre c’è una simbologia nascosta e una doppia valenza per questi mostri che popolano le stanze dei morti, così essi sono al tempo stesso custodi del tesoro, coloro che tutelano, ma anche coloro che danno il colpo fatale.
Era strano parlare degli etruschi e del loro viaggio nell’al di là proprio in riva al mare, ancora e sempre il centro della vita, e difatti così rappresentato nelle loro tombe. Bisognava però arrivare a qualche conclusione, almeno sugli etruschi. C’era ancora Cere da visitare. Avevano ancora un po’ di tempo.

Ancora San Francesco

Nel locale s’era alzato il fumo della carne alla brace. Guardando nella coppa di vino per metà colma che aveva davanti a sé Cristina ad un certo punto ci vide qualcosa. Cercò di mettere meglio a fuoco l’immagine: era San Francesco, Ma che c’entrava? Seppure Assisi fu etrusca il grande santo medievale s’era risoluto, all’opposto di un principe etrusco, di spogliarsi di tutti i suoi beni. Cristina s’accorse che ad emergere dal bicchiere era il San Francesco di Giotto, nell’immagine più amata e popolare, del Santo che predicava agli uccelli. L’immagine è bella di per sé, nel suo contenuto “letterale”, perché presuppone quell’armonia della natura - del creato nella religiosità cristiana medievale – con la possibilità di comunicazione, fratellanza e solidarietà tra tutte le creature, così chiara nella mente di Francesco. Essa va dritta al cuore della gente, è recepita dallo spirito popolare. Ma gli uccelli chi rappresentavano? Forse Giotto, come i pittori etruschi, si servì di simboli, semplici e naturali.
Cristina guardò il suo compagno, che stava prestando orecchio ai discorsi sulla Ferrari, della tavolata accanto, del tipo: la nuova centralina elettronica di marca Mc Laren applicata a tutti i motori della formula uno. Provò a richiamare la sua attenzione.

Il lungo corteo dell'addio

Il signore o la signora, di questa società aristocratica, non sono più a banchetto con intorno a loro una moltitudine di servi che servono le libagioni, musici e danzatori, ma sono costantemente accompagnati, da dèmoni, il maschile Charun, con il grande martello e la femminile Vanth con in mano una fiaccola. Il martello che evoca miniere, pozzi e nani tolkeniani, serve ad aprire la porta dell’al di là, sempre rappresentata nelle tombe dipinte di Tarquinia, ma anche il colpo mortale; la fiaccola a fare luce nel cammino. Il corteo è lungo, con una schiera di servitori che portavano oggetti che illustrano il prestigio del defunto e c’è n’è sempre uno con una cassetta sulle spalle. Ancora, il signore etrusco fa il suo viaggio al meglio, con tutta la sua rappresentanza, sul carro principesco. A volte il carro è coperto, e allora il corteo può sembrare quello di un popolo migrante. Fece questo effetto a D. H. Lawrence quando vide questi cortei scolpiti nei cinerari del museo di Volterra.
All’ultimo piano del museo di Tarquinia sono state ricostruite quattro tombe dipinte, i cui affreschi, poiché si stavano deteriorando, sono stati staccati e posti qui su pannelli, nei primi anni Sessanta. Sono proprio tra le tombe che piacquero di più a Lawrence, quando le visitò “in situ” nel 1927. Tra le più antiche, tra sesto e quinto secolo, non ancora influenzate dalla maniera greca. Cristina e Daniele si accontentarono di vedere queste tombe dipinte, poiché in precedenza avevano entrambi già visitato la necropoli di Monterozzi.
Queste tombe, che fecero esaltare allo scrittore inglese la vitalità e la festosità degli Etruschi, ci danno effettivamente un’altra temperie del mondo etrusco se confrontate con i lunghi cortei dell’addio. Il fondo giallo crema delle pareti, che Lawrence considerava così adatto alle pareti domestiche, i colori vivaci e accesi, il contorno morbido del disegno. Questo prevalere del contorno, forse preservatosi come eredità nel disegno fiorentino, la caratteristica piattezza della pittura etrusca, perciò giudicata inferiore a quella greca, maestra dell’organicità e del chiaroscuro, sono ulteriori prove che gli etruschi facevano sempre le cose a modo loro.
All’ultimo piano i famosi cavalli di Tarquinia, frammento della decorazione di terracotta che ornava il grande Tempio dell’Ara della Regina, posti un tempo a un’estremità del triangolo del timpano. Erano colorati e si vede ancora che uno era nero e l’altro rosso. Anche nella scelta dei colori era celata una simbologia. Gli uomini avevano la pelle rossa, le donne erano invece chiare. Le cortigiane avevano la parrucca bionda.
Nel ristorante, alla grande tavolata, accanto a loro, solo uomini che forse festeggiavamo un cantiere che si chiudeva. L’accento era settentrionale. Si parlava di Ferrari e di motociclette, mentre ci si apprestava a demolire enormi grigliate. In fondo un richiamo all’Etruria padana.
- Ma questo viaggio nell’al di là? Dicono che, in comune con gli egizi, in queste antiche religioni, la tomba a somiglianza della casa, con tutti gli oggetti che al morto erano serviti da vivo, avessero la funzione in qualche modo di preservarne l’individualità, e di acquietarlo. Allora tu che ne dici?
- Non dobbiamo dimenticare che questi signori etruschi erano ricchi possidenti terrieri e commercianti, guerrieri e dominatori di mari. Penso che nell’al di là volessero presentarsi al meglio.
- Come dire, far vedere chi erano anche a chi stava nell’al di là?
- Pressappoco.
- Ci può stare. E nello stesso tempo ricordarlo a che rimaneva, ai vivi! Perché è vero che le tombe venivano chiuse con tutti i loro ricchi corredi, e così ai morti non mancava nulla per banchettare, ma le strade e le piazze delle città dei morti dovevano popolarsi in occasione di feste e ricorrenze. La posizione stessa delle necropoli, spesso di fronte alle città dei vivi, quasi a gareggiare con loro.

venerdì 4 luglio 2008

Dov'era Tarquinia

Si risvegliarono in un agriturismo vicino al mare, quel mare che Tarquinia dominò da un po’ più da lontano di Cere. Ciò che più rimase nei loro occhi di quel viaggio a Tarquinia, sopra tutto quello che videro al museo, e ci rimasero tre ore, fu la vista del pianoro dove dovette sorgere la vera Tarquinia etrusca, esattamente di fronte alla città attuale.
Questo pianoro era deserto e perciò splendido nell’aperta campagna, si opponeva con la sua maestosa nudità alle torri e i campanili della città attuale, la quale stava proprio su quella che fu invece la città dei morti della Tarquinia etrusca.
Sarà stato perché era primavera, e le terre intorno erano di tutti i toni del verde, su cui sembravano disegnati i grigi archi dell’acquedotto medievale – finalmente non c’era una casa intorno - e i finocchi selvatici, alti ai bordi della strada bianca che conduce alla Civita, sembravano, con le loro gialle ombrella fiorite, lampade già accese nel tardo pomeriggio. Il mare in fondo all’orizzonte. Sarà stato per quel senso d’infinito che dà proprio il pensare, forse per quella faccenda degli opposti che si richiamano, a qualcosa di grande che non c’è più, che appunto è finito.
Dopo Tarquinia però sentirono la necessità in qualche modo di fare il punto della situazione, tra pappardelle al cinghiale e bistecche rigorosamente ai ferri.
La visita al museo era stata faticosa, per la quantità delle cose viste ma aveva sciolto alcuni nodi. Quel giorno a Tarquinia c’era la fiera perché ricorreva una festività e la strada principale che sale verso il belvedere era stipata di bancarelle. Rispetto ai mercatini settimali paesani e cittadini, c’era una gran quantità di banchi di cibarie, con salumi formaggi, e dolciumi, che si dichiaravano nelle loro insegne “siciliani” – compaiono sempre dolci “siciliani” nelle pasticcerie dell’Etruria meridionale - umbri, marchigiani, abbruzzesi. Un compendio insomma delle italiche genti con cui gli etruschi commerciavano. Anche il museo aveva subito l’assalto di una moltitudine di persone, intere famiglie coi bambi piccoli che invadevano le logge di Palazzo Vitelleschi.
- Ora abbiamo compreso la differenza che corre tra le anfore greche e quelle etrusche - osservò Daniele riandando col pensiero a quell’interminabile serie di vetrine che le contenevano. L’esattezza “razionale” delle prime, l’arruffatezza insopprimibile della figurazione nelle seconde, con il prevalere di teste, e l’esuberanza di qualche fogliame che interferiva spesso con le scene mitologiche rappresentate.
- E avevano perfino loro artigiani nelle fabbriche greche perché le facessero secondo il loro gusto!
Al piano terra del museo di Tarquinia nelle prime sale c’è l’intera ricostruzione di una tomba e quindi gli elementi archittetonici caratteristici delle tombe più antiche orientalizzanti, sfingi e quei lastroni a scaletta che dovevano forse servire da porte ma anche da scale se poggiati inclinati, con i motivi decorativi propri dell’orientalizzante. Poi si succedono sale colme di sarcofagi, ma questi sono più tardi, d’età classica ed ellenistica, perché nelle fasi precedenti della storia etrusca i defunti erano, generalmente, posti nelle tombe distesi sui letti di pietra. Forse in particolare per le donne, qualche volta i letti erano scolpiti entro le urne di sarcofagi. E sui sarcofagi i defunti erano dapprima effigiati sdraiati, appena un po’ di fianco, poi nella cosiddetta posizione recumbente, cioè come quella dei banchettanti nel triclinio: ultima, contratta, evocazione, insieme ai permanenti corredi di anfore e coppe, dei fastosi banchetti funebri effigiati nei tempi più antichi, e poi non più. Sui lati dei sarcofagi, infatti, le scene ora rappresentate sono quelle mitologiche, in specie mischie di battaglie. Ci sono sempre i leoni che azzanano i cervi, simbolo della morte ma anche dei due poli della dinamica della vita. C’è sempre una simbologia da rintracciare nelle figurazioni etrusche! Poi, proprio alla fine, le scene sui sarcofagi rappresentano solo e sempre lunghi e tristi cortei che accompagnavano il defunto.

(continua)

Bomarzo. Mostri o alieni?

Il mostro di pietra con la bocca spalancata sembrava bearsi della sua terribilità ed incurante dei visitatori. Trovarono un posto dove stare un po’ tranquilli a chiacchierare.
- Non ci sarà un filo che unisce questi mostri a certe raffigurazioni etrusche? - Cristina aveva preso a tormentare i fili d’erba.
Daniele lasciò che a rispondere fosse la sua faccia, cioè assunse, come spesso gli accadeva, pensò Cristina, le sembianze dell’indecifrabile. Meno facilmente si lasciava andare a quelle supposizioni che a lei piacevano tanto.
- Pensavo agli animali mostruosi…
- La loro religione manteneva aspetti primitivi, con divinità che potevano essere ostili e minacciose, oppure benigne, che comunque sovrastavano gli uomini.
- I greci hanno razionalizzato queste paure antropomorfizzando le divinità, cioè rendendendole simili a noi.
- Pressappoco.
- Invece gli etruschi riuscivano a pensare solo di poter interpretare i segni divini. Tutto intorno a loro, dal cielo al fegato della pecora, era un unico cosmo fatto di segni da interpretare.
- E quindi di simboli.
- Allora anche gli animali mostruosi sono simboli: il leone con la testa di capra e la coda di serpente, che è la chimera, riunirebbe in sé i poli contrari, le forze, gli elementi vitali.
Ripensavo a Paolo – continuò Cristina - quando stavamo al museo di Trevignano, sedotto da un marmo bianco romano piuttosto che da tutti quei buccheri neri con quelle figurine grottesche incise negli steli di sostegno alle coppe. Quanto è stato scritto sull’inorganicità dell’arte etrusca rispetto a quella greca, il loro sovraccaricare di decorazioni, i manici degli oggetti affollati di statuine… ecco penso che se gli etruschi ricercavano segni e deponevano simboli questo era primario nella realizzazione degli oggetti, s’imponeva alla forma e all’uso, all’arte stessa. I simboli si mettono dove meglio si vedono. Come le statue sul tetto dei templi.
Daniele taceva e Cristina pensò che acconsentisse.
Le venne in mente H. P. Lovecraft e il suo “Ciclo di Cthulhu”: gli antichi come alieni, orridi mostri venuti dalle stelle.
Daniele aveva chiuso gli occhi contro il sole e sorrideva che sembrava addormentato. Lei continuò a parlare, ma ebbe cura di abbassare la voce:
- Mi è piaciuto in “Guerre Stellari” l’episodio in cui compare Harrison Ford, il porto spaziale dove circolano esseri dalle forme più stravaganti. Un futuro nello spazio all’insegna della biodiversità. Lo stesso principio di vita diversificatosi in ogni modo nell’universo e tutte le forme di vita evolutesi più o meno in pace e comunicanti tra loro.
Le venne infine in mente un essere a tre teste, che ebbe il potere di farla tacere, ma si trasformò in un attimo nell’incipit di un racconto che Cristina si provò ad immaginare affondando nell'erba del parco di Bomarzo.

Un altro prologo: il racconto di Cristina, bozza di una saga stellare.
"L’essere a tre teste atterrava nello spazioporto della grande capitale intergalattica, nell’inconfondibile modo bizzarro dei tre-teste. Il comandante Polifactor si sorprese a pensare, seguendone la traiettoria:
- Difficile che i treteste affrontino una cosa in maniera lineare.
Si preparò a scendere per ricevere quell’ultima delegazione finalmente arrivata su Trantor. Prese con una mano la cartella luminosa; con un’altra il dono per l'ospite, scelto e procurato personalmente dal Presidente Thefarie Velianas, una statuetta di una lega primordiale, il bronzo, che proveniva come le altre già consegnate, dalla Terra - pare che adornassero le tombe di una popolazione poi scomparsa:
- Scelta piena di significato - si disse il comandante, pensando che la Terra e il suo futuro erano il motivo principale della riunione.
Con la terza mano prese la scatola dei contatti, con la quarta… Si fermò bruscamente. Ricordò a se stesso che non doveva approffitare di fronte agli ospiti delle prerogative dei multimano, per non imbarazzarli.".

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