martedì 15 aprile 2008

elezioni politiche: il pranzo è servito



La forchetta scivolava quasi subito sotto la tavola, la vittoria dell'avversario si apparecchiava sempre più consistente, degli interrogativi restavano come antipasti non finiti di consumare, alcune pietanze rimaste nel piatto, e quanto alle libagioni, mescite e travasi ancora da decifrare. I sommelier si fecero quindi avanti a spiegare: chi l'avrebbe mai detto che nel barbera piemontese le uve leghiste dovessero soppiantare quelle della sinistra storica? Eppure l'allarme sui vini c'era stato. E come non pensare che nel piatto centrale, un tipico stufato, la quantità rimasta fuori dalla preparazione di destra sarebbe stata rimpinguata da sinistra? Così la grande tavolata si trovò tutta spostata a destra e i posti a sinistra deserti, piatti e bicchieri vuoti.
La cura per risanare l'Italia era stata troppo forte, e l'antica medicina l'aveva detto che in questi casi c'è il rischio che sia proprio la cura a schiantare il malato. Il malato se n'è accorto ed ha reagito come ha potuto. L'equità, la redistribuzione dei redditi sarebbe stato prima di tutto una cura più adatta per i malati più debilitati. Ma in Italia è più facile da tempo immemore rialzare le tasse a tutti i cittadini, con la conseguenza che i più poveri siano in proporzione i più tartassati, che operare con equità sociale e fiscale. Altre cose non si sono potute o volute fare. La sinistra, lasciata a correre da sola, ha pagato il suo pesantissimo scotto. Ma non si dica che qualche punto di percentuale in più rispetto all'Ulivo, sia un risultato positivo per il Partito Democratico. Per piacere: il piatto piange.

lunedì 7 aprile 2008

Gli asfodeli di Cere



(frammento da un racconto – probabilmente inedito)

“ Presero la strada fiancheggiata da pini e cipressi che conduceva alla necropoli monumentale che già era il tramonto. Si erano attardati nell’attuale Cerveteri a mangiare pizza e dolci etruschi come diceva la scritta sopra l’entrata della pasticceria. Cristina ricordava cosa c’era scritto sul manuale di Massimo Pallottino. Se Veio era scomparsa, Cerveteri era l’immiserito erede dell’antica metropoli, un centro che era stato eccezionalmente ricco e popoloso, forse uno dei più splendidi del mondo allora conosciuto. Prima avevano attraversato in macchina l’abitato fino alle ultime case, sul pianoro tufaceo. A piedi avevano disceso la strada che costeggiava la rocca turrita, giù verso il fosso per trovarsi a tu per tu con i possenti massi tufacei che vi si elevavano, completati nella loro discontinuità dalle altissime mura di blocchi squadrati. Di là dal fosso sul pianoro opposto, una processione di pini e cipressi indicava la via alla necropoli, anche se Cristina e Daniele ancora non lo sapevano e si chiedevano dove portasse. Come riconobbero poi, a Cere la città dei morti affrontava la città dei vivi, quasi vi gareggiasse, entrambe allungate sugli opposti pianuri tufacei separati dal fosso inciso nel tufo. Per raggiungerla occorreva uscire dalla città dal suo lato corto, passare sotto gli ultimi bastioni smozzicati, transennati e quasi inghiottiti dalle case costruitegli addosso, e risalire subito a destra la strada tortuosa che infine si distendeva tra i pini e i cipressi. Invece sbagliarono e presero prima la strada del Sasso, in una conca ridente tra il mare, una linea d’azzurro, e i monti della Tolfa, masse compatte, verde bruno raggruppate contro il cielo. Ricca di coltivazioni, come pure doveva essere ai tempi dei tirreni, ma anche di ville e villette, segno che il processo contemporaneo di costruzione edilizia non si arrestava.
Quando finalmente scesero dall’automobile, circondati dai tumuli, ancora una volta ebbero l’impressione forte di trovarsi in un altro mondo.
- Si sente l’odore della campagna – disse Daniele.
Tutto intorno era il verde d’aprile e sopra di esso si alzavano alte le spighe dei pallidi asfodeli, in piena fioritura. Le sommità dei tumuli ne erano piene. Dalla parte del mare un sole rosso si apprestava ad uno dei migliori, rinomati tramonti tirrenici. Se la volta celeste era un fragoroso contrasto di colori, i “fiori dei morti” erano uno spettacolo molto meno assordante ma, in tono minore, un canto altrettanto magnifico.
Daniele si concentrò sul tramonto, finchè il sole scomparve; Cristina sugli asfodeli, spiando le le nere imboccature di porte e finestre, le porte a “becco di civetta”, delle abitazioni sepolcrali. Dal pianoro della necropoli era l’odierna Cerveteri che ora si stendeva davanti a loro…”

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