venerdì 29 agosto 2008
Roberto Baggio
Dal particolare all'universale.
E’ stato proprio per quel rigore scalciato contro il cielo. Per me il mito è cominciato a Pasadena.
L’eroe che cade e fallisce l’impresa, insomma quella roba lì. Prima, molto prima, c’era stato Sivori, con i calzettoni scesi alle caviglie, poi Mario Corso, con la grande Inter, e gli stessi calzettoni alle caviglie. Mi sono fermata a Baggio. L’ho seguito pure nel Brescia e ne valeva la pena: che gol fantastici fino all’ultimo minuto! Eppure è stata dura, per tutte le polemiche ogni volta che c’era la Nazionale, con l’ultima, tremenda, esclusione da parte del Trap: anche noi fans soffriamo. Non abbiamo dimenticato il suo coraggio nel tornare così presto in campo dopo l’ultimo tremendo incidente, proprio per essere convocato.
E. Berselli su Repupplica diceva della solitudine dei numeri dieci, parafrasando un romanzo molto premiato. Sarà, ma ci sono dei numeri dieci che compensano la solitudine, e a volte l’ostracismo del gruppo, con una popolarità immensa. Sono tra gli eroi dello spirito popolare. Baggio è senz’altro tra i più amati. Dal Brasile – dove lo adorano proprio per quel rigore sbagliato- alla Cina e al Giappone, passando per l’Africa. Anche da questo punto di vista si tratta del passaggio magico dal particolare all’universale: il genio di per sé inspiegabile che si dà alla comprensione di tutti. Il calcio è terreno d’elezione per questo passaggio, quasi mistico: a pallone si gioca sotto casa e può cominciare così la favola di chi diventa un campione.
E’ stato, il calcio, uno sport popolare. E’ stato, perché ormai è diventato sempre più spettacolo televisivo. I suoi protagonisti qui da noi avevano spesso facce un po’ rozze, contadine e parlavano un linguaggio molto semplice, perché a scuola c’erano andati poco e malvolentieri, perché la loro passione era la strada e giocare a pallone. Ma così è cominciata ancora la storia di Roberto, come l’ha raccontata una volta proprio alla televisione. A Baggio andare a scuola gli piaceva poco e con i compagni presero una rara e per questo memorabile sospensione nella scuola media di Caldogno, dove non succedeva mai niente. Quello che più gli interessava era il gioco del calcio, che per lui, Baggio, è stato una passione. C’era in quell’occasione, anche un un giovanissimo calciatore del Brescia che raccontava delle emozioni provate durante certi momenti di certe partite. Ecco dove può battere ancora forte il cuore del calcio, dove può ancora cominciare la favola: dai ragazzini, calati nel loro particolare, il paese o il quartiere, che si affidano al loro talento ”pedatorio” per provare ad interpretare, con il calcio, il gioco della vita, l’universale: le partite, divengono le battaglie con le vittorie e le sconfitte, l’amicizia e la rivalità e tutte quelle cose, che, se si ama il calcio, ognuno vi può trovare dentro rappresentate.
Ed oggi? Quegli armadi bianchi chiusi a chiave con le maglie conservate, di cui ci da notizia I. Zazzaroni ci danno da pensare: qualche porta andrà aperta, qualche soluzione bisognerà trovarla perché la nostalgia è tanta.
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giovedì 7 agosto 2008
Di Barnaby Rudge e del ricordare
Il romanzo è ambientato all’epoca dei disordini anticattolici nella Londra del 1780.
Barnaby è più volte indicato nel romanzo da diversi personaggi come un’idiota. La madre, posta di fronte alla diversità del figlio, ricorda i piccoli stratagemmi escogitati, quando era bambino, per metterlo alla prova, i piccoli segni “non di stupidità, ma di qualcosa di infinitamente peggio, così fantomatici e poco infantili com’erano”; “ le strane immaginazioni che egli aveva; il terrore di certe cose inanimate, oggetti familiari che egli dotava di vita”. In effetti Barnaby sembra vivere in un altro mondo. Appena lo incontriamo ci parla delle stelle come occhi che guardano le cose degli uomini, anche uomini buoni feriti, limitandosi a sfavillare e ad ammiccare tutta la notte. Lo ritroviamo che parla della sua ombra, di come le nostre ombre giochino e si burlino di noi. Barnaby, capace di passare ore davanti al fuoco, “ad osservare le immagini nei carboni ardenti: i fiumi, le colline e le valli nel rosso scuro del tramonto, e visi selvaggi”. Barnaby, dall’alba al tramonto a correre sfrenatamente per le campagne, tuffarsi a riposare nell’erba: “C’erano uccelli da vigilare, pesci, formiche, vermi, lepri e conigli, mentre attraversavano il lontano sentiero nel bosco e così scomparivano: milioni di esseri viventi a cui interessarsi e da osservare rimanendo distesi, e per i quali, quando erano scomparsi, c’era da battere le mani.” Barnaby vive in un mondo animato, come uno spiritello shakespeariano, vive nell’armonia della natura. Amico dei cani vagabondi e di un corvo parlante di nome Grip.
C’è un altro tratto di Barnaby che è essenziale: il suo non ricordare. La madre sfrutta questo carattere del figlio, ormai ventiduenne, per trattenerlo in casa: “i racconti che ella gli ripeteva come un allettamento per tenerlo sempre vicino a sé. Non riusciva a ricordare queste piccole narrazioni – il racconto di ieri era nuovo l’indomani – ma gli piacevano sul momento; e quando ne aveva voglia rimaneva pazientemente in casa, ad ascoltare le storie come un bambino e a lavorare allegro”. Barnaby ricorda solo poche cose essenziali e siccome Barnaby è spesso felice, tendiamo a pensare che alla base del suo essere felice vi sia proprio il suo non ricordare: “Quella sua debolezza di mente che lo rendeva così rapidamente dimentico del passato, salvo in brevi barlumi e lampi, pure, adesso era un conforto. Il mondo per lui era pieno di felicità; per ogni albero, pianta e fiore, per ogni uccello e bestia, per ogni piccolo insetto che un alito di vento estivo facesse cadere a terra, egli era felice.”. Quando Barnaby viene risucchiato nel gorgo dei disordini, e ne diventerà protagonista, di lui è detto rispetto alla moltitudine insorta: “camminava orgoglioso e felice, fiero oltre ogni dire; la sola creatura gioconda e schietta nell’intera riunione.” Questo suo non fermare i ricordi predispone Barnaby a cogliere gli istanti della felicità, gli attimi fuggenti; perfino quando è rinchiuso in prigione Barnaby accede ad un sentimento superiore, grazie ad un raggio di luna che penetra nella cella attraverso l’inferriata: “e sentì la pace entrargli profonda nel cuore. Lui, un povero idiota, chiuso nella piccola cella, era innalzato verso Dio, mentre contemplava la dolce luce, quanto l’uomo più libero e più fortunato in tutta la vasta città; e nella sua preghiera mal ricordata e nel frammento dell’inno infantile che cantò e lo cullò nel sonno, aleggiava uno spirito di verità quale mai fu espresso da omelie studiate con cura, né mai echeggiò sotto gli archi di vecchia cattedrale”. Barnaby, eroe dello spirito popolare!
Attorno a Barnaby, che non ricorda, gira una moltitudine di personaggi che invece non riesce ad uscire dal proprio passato, è ancorata ad eventi trascorsi, scolpiti nella memoria, a cominciare dall’assassino incapace di distaccarsi dal luogo del delitto ma altrettanto incapace a mondarsi della colpa. Il ricordare che genera paura, ansia, rancore e sete di vendetta, tutti sentimenti negativi che impediscono, o rallentano, un’evoluzione positiva e la risoluzione dei conflitti. C’è, dunque, una dimensione negativa del ricordare. Opposta all’elegia e alla poetica creativa del ricordare di proustiana accezione. Un po’ come nel cinema di Sergio Leone, dove i flash back, servono, appunto, ad illuminare questa quarta dimensione: il lato oscuro del ricordare. Un lento movimento che alla fine fa venire a galla non solo i pesi degli altri ma, fardelli più duri, i nostri stessi.
Barnaby è più volte indicato nel romanzo da diversi personaggi come un’idiota. La madre, posta di fronte alla diversità del figlio, ricorda i piccoli stratagemmi escogitati, quando era bambino, per metterlo alla prova, i piccoli segni “non di stupidità, ma di qualcosa di infinitamente peggio, così fantomatici e poco infantili com’erano”; “ le strane immaginazioni che egli aveva; il terrore di certe cose inanimate, oggetti familiari che egli dotava di vita”. In effetti Barnaby sembra vivere in un altro mondo. Appena lo incontriamo ci parla delle stelle come occhi che guardano le cose degli uomini, anche uomini buoni feriti, limitandosi a sfavillare e ad ammiccare tutta la notte. Lo ritroviamo che parla della sua ombra, di come le nostre ombre giochino e si burlino di noi. Barnaby, capace di passare ore davanti al fuoco, “ad osservare le immagini nei carboni ardenti: i fiumi, le colline e le valli nel rosso scuro del tramonto, e visi selvaggi”. Barnaby, dall’alba al tramonto a correre sfrenatamente per le campagne, tuffarsi a riposare nell’erba: “C’erano uccelli da vigilare, pesci, formiche, vermi, lepri e conigli, mentre attraversavano il lontano sentiero nel bosco e così scomparivano: milioni di esseri viventi a cui interessarsi e da osservare rimanendo distesi, e per i quali, quando erano scomparsi, c’era da battere le mani.” Barnaby vive in un mondo animato, come uno spiritello shakespeariano, vive nell’armonia della natura. Amico dei cani vagabondi e di un corvo parlante di nome Grip.
C’è un altro tratto di Barnaby che è essenziale: il suo non ricordare. La madre sfrutta questo carattere del figlio, ormai ventiduenne, per trattenerlo in casa: “i racconti che ella gli ripeteva come un allettamento per tenerlo sempre vicino a sé. Non riusciva a ricordare queste piccole narrazioni – il racconto di ieri era nuovo l’indomani – ma gli piacevano sul momento; e quando ne aveva voglia rimaneva pazientemente in casa, ad ascoltare le storie come un bambino e a lavorare allegro”. Barnaby ricorda solo poche cose essenziali e siccome Barnaby è spesso felice, tendiamo a pensare che alla base del suo essere felice vi sia proprio il suo non ricordare: “Quella sua debolezza di mente che lo rendeva così rapidamente dimentico del passato, salvo in brevi barlumi e lampi, pure, adesso era un conforto. Il mondo per lui era pieno di felicità; per ogni albero, pianta e fiore, per ogni uccello e bestia, per ogni piccolo insetto che un alito di vento estivo facesse cadere a terra, egli era felice.”. Quando Barnaby viene risucchiato nel gorgo dei disordini, e ne diventerà protagonista, di lui è detto rispetto alla moltitudine insorta: “camminava orgoglioso e felice, fiero oltre ogni dire; la sola creatura gioconda e schietta nell’intera riunione.” Questo suo non fermare i ricordi predispone Barnaby a cogliere gli istanti della felicità, gli attimi fuggenti; perfino quando è rinchiuso in prigione Barnaby accede ad un sentimento superiore, grazie ad un raggio di luna che penetra nella cella attraverso l’inferriata: “e sentì la pace entrargli profonda nel cuore. Lui, un povero idiota, chiuso nella piccola cella, era innalzato verso Dio, mentre contemplava la dolce luce, quanto l’uomo più libero e più fortunato in tutta la vasta città; e nella sua preghiera mal ricordata e nel frammento dell’inno infantile che cantò e lo cullò nel sonno, aleggiava uno spirito di verità quale mai fu espresso da omelie studiate con cura, né mai echeggiò sotto gli archi di vecchia cattedrale”. Barnaby, eroe dello spirito popolare!
Attorno a Barnaby, che non ricorda, gira una moltitudine di personaggi che invece non riesce ad uscire dal proprio passato, è ancorata ad eventi trascorsi, scolpiti nella memoria, a cominciare dall’assassino incapace di distaccarsi dal luogo del delitto ma altrettanto incapace a mondarsi della colpa. Il ricordare che genera paura, ansia, rancore e sete di vendetta, tutti sentimenti negativi che impediscono, o rallentano, un’evoluzione positiva e la risoluzione dei conflitti. C’è, dunque, una dimensione negativa del ricordare. Opposta all’elegia e alla poetica creativa del ricordare di proustiana accezione. Un po’ come nel cinema di Sergio Leone, dove i flash back, servono, appunto, ad illuminare questa quarta dimensione: il lato oscuro del ricordare. Un lento movimento che alla fine fa venire a galla non solo i pesi degli altri ma, fardelli più duri, i nostri stessi.
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